laR+ Culture

Pier Paolo Pasolini e il cinema come esperienza filosofica

Di lui resta anche il grande Cinema: con il suo lavoro, il regista nato cent’anni fa ha ridato dignità a un’arte diventata troppo in fretta commercio

Nel 1960, sul set di ‘Accattone’
(Keystone)
22 marzo 2022
|

Una delle sue frasi più citate – "Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica" – traccia una strada non trascurabile nell’affrontare il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il cinema. Un rapporto intenso cominciato con la partecipazione alla sceneggiatura di ‘La donna del fiume’ (1954) di Mario Soldati, nato da una storia di Alberto Moravia ed Ennio Flaiano e non ancora chiuso, visto che nel 2019, a quasi 45 anni dalla sua morte, una giovane regista spagnola, María Elorza, ha presentato il corto ‘Ancora Lucciole’, tratto da un suo scritto. In tutto, Pier Paolo Pasolini ha diretto 27 film, anche se gliene si accredita uno in più, il documentario di Giuseppe Bertolucci del 2008 ‘La rabbia di Pasolini’, un tentativo di ricostruire la versione integrale del segmento ‘La rabbia’ (1963) che Pasolini aveva diretto con Giovanni Guareschi, suscitando non poche polemiche in quel confronto tra le sue idee del marxismo come unica possibilità di futuro contrariamente al padre di Don Camillo, che vedeva una parola di speranza, espressa in termini tradizionali cristiani, per il futuro dell’uomo. Se 27 film non sono pochi, ben 65 sono le sceneggiature a lui attribuite; 6 i film in cui ha fatto l’attore, 2 quelli che ha ufficialmente montato. Tre i film cui ha contribuito per la colonna sonora, indimenticabili i testi di ‘Cosa sono le nuvole’ in ‘Capricci all’italiana’ (1968) e quelli per i titoli di testa di ‘Uccellacci E Uccellini’. In un film, com’era amara consuetudine nel cinema italiano degli anni 50 e 60 dello scorso secolo, si presentò come Paul Pasolini: era 1955, e il film ‘Il prigioniero della montagna’ (1955) era un Berg-film di Luis Trenker, e con lui a scrivere c’era Giorgio Bassani che di li a poco pubblicherà ‘Il giardino dei Finzi-Contini’.

Gli anni di scrittura, spesso non riconosciuti. Pensiamo al suo lavoro per l’Edison ed Ermanno Olmi per ‘Manon - Finestra 2’, film sul lavoro in miniera del 1956, e con Olmi trova la sua prima sintesi sul senso di fare cinema l’anno dopo con ‘Grigio’. Olmi chiamato a girare filmati scientifici o pseudo tali, aveva fatto su ordinazione un documentario sull’innesto di protesi aortiche negli animali, per lavarsi la coscienza. Con Pasolini, racconta la storia di un cagnolino di nome Grigio che dalla campagna arriva in città, adagiandosi per terra in attesa di capire tutti quei rumori, morendo. Olmi e Pasolini affrontano il tema funereo della fine di una civiltà. Olmi più di Fellini segna il cammino pasoliniano che nello stesso anno troviamo nel capolavoro ‘Le notti di Cabiria’, dove collabora con lo stesso Fellini, Flaiano e Tullio Pinelli. È questo 1957 un anno denso: è con Mauro Bolognini in ‘Marisa la civetta’, e con lui sarà ancora per ‘Giovani mariti’ nel 1958 e ‘La notte brava’ nel 1959, ‘Il bell’Antonio’ nel 1960 e in quello stesso anno girano insieme ‘La giornata balorda’. E il 1960 è un anno particolare: non accreditato per ‘La dolce vita’, scrive e continua a scrivere anche per il Florestano Vancini di ‘La lunga notte del ’43’. È pronto ormai per esordire alla regia, non è uno sprovveduto come molti hanno scritto, sa scrivere una sceneggiatura, conosce direttori alla fotografia, montatori, musicisti, ha maturato un’idea di cinema, ed ecco il 1961 e l’esordio come regista per ‘Accattone’, con in sé la forza di Olmi e la bellezza di Bolognini, una storia che ha scritto, alla ricerca di un’originalità di lettura, di una propria identità, non più di figlio, ma di padre.

Bellezza narrativa, profondità del dire

Ormai il cinema lo cerca. Trova nelle sue novelle, nei suoi romanzi, nella sua poesia, barili da cui trarre evangelicamente il vino migliore, e Bernardo Bertolucci guadagna ‘La comare secca’ e Paolo Heusch e Brunello Rondi ‘Una vita violenta’. Ma in quello stesso 1962 spiazza tutti con ‘Mamma Roma’, e con lui è splendida Anna Magnani. L’anno dopo firma‘Ro.Go.Pa.G.’ insieme a Jean-Luc Godard (episodio ‘Il nuovo mondo’), Ugo Gregoretti (episodio ‘Il pollo ruspante’) e Roberto Rossellini (episodio ‘Illibatezza’). Il suo ‘La Ricotta’ fu al centro di una clamorosa vicenda giudiziaria che si concluse con la condanna del regista a 4 mesi di reclusione con la condizionale per "vilipendio alla religione di Stato" e con il sequestro dell’opera. Comincia così il suo originale uso dell’opera cinematografica, come poesia, provocazione verso un cinema che si appoggiava su generi consolidati: il nascente western spaghetti, il decadente peplum, la trionfante commedia all’italiana, l’individualismo trionfante a suon di premi di Fellini, e lui, Pier Paolo Pasolini, memore della lezione di Olmi e di Bolognini, a seguire un suo cammino originale che un mondo democristian-fascista e retrivo non poteva accettare con il suo retrogrado moralismo. Il piacere di scrivere, di sceneggiare, lo porta a firmare ‘Milano nera’ dei carneadi Gian Rocco e Pino Serpi, prima di affrontare ‘Il Vangelo secondo Matteo’, il film che gli regala subito una fama mondiale, Leone d’Argento - Gran Premio della giuria e Premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma) alla 25° Mostra del cinema di Venezia, insieme ad altre polemiche per la sua originale visione cristologica. Eppure il film, ancora una volta è estrema e dolorosa poesia. Il suo non è un Cristo cattolico, ma un Cristo prima di tutto umano, non un debole umano, ma un essere coraggioso, di frontiera, poco dio e tanta umanità.

Due anni dopo ecco ‘Uccellacci e Uccellini’, e qui, come per il film di prima, occorrerebbero libri per spiegarne la pura bellezza narrativa, la profondità filosofica del dire. È il tempo di un nuovo film collettivo, ‘Le streghe’, dello strano western ‘Requiescant’ firmato da Carlo Lizzani, in cui oltre a scrivere non accreditato recita la parte di Don Juan. E soprattutto di ‘Edipo re’ da Sofocle con la bellissima Silvana Mangano e con protagonista Franco Citti nel ruolo di Edipo. È questo il film che apre alla complessità della lettura del cinema pasoliniano: ci sono le inquadrature iniziali nel Friuli della giovinezza dell’artista e quelle finali, con Edipo accecatosi, nella Bologna che l’ha visto crescere. Il 1968 si apre con l’episodio di ‘Capriccio all’italiana’, ‘Che cosa sono le nuvole?’: ci sono Toto e Ninetto Davoli, di nuovo compagni dopo ‘Uccellacci e Uccellini’, ci sono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, coppia d’oro del cinema demenziale italiano, e c’è il monumento Domenico Modugno, tutto tenuto insieme da una malinconica e malata poesia. Ed ecco ‘Teorema’, ancora con la Mangano, e il 13 settembre 1968 la Procura della Repubblica di Roma sequestra il film "per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava".

Morire per essere quello che si è

Pasolini è cosciente del suo fare cinema, mai casuale, sempre atto politico e filosofico, ricerca che sfida il qualunquismo del cinema commerciale senza mai negare il valore di spettacolo che è il fatto cinema. E arriva il 1969 in cui firma ‘Porcile’ e ‘Medea’, due film straordinari: se l’uno è lo strabordante Ugo Tognazzi, l’altro è Maria Callas, sublime voglia di cinema, arte che canta nel dettato pasoliniano, autore che si permette di abiurare i propri film. Perché ha coscienza del suo ruolo d’intellettuale prima di tutto, così sul Corriere della Sera del 13 giugno 1975 può scrivere: "Io abiuro dalla Trilogia della vita (si tratta di tre film girati tra il 1971 e il 1974: ‘Il Decameron’, ‘I racconti di Canterbury’ e ‘Il fiore delle Mille e una notte’, ndr), benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso".

Eppure, proprio questa trilogia avvicinò con i suoi enormi incassi il pubblico a Pasolini. Un Pasolini sempre più implicato nella vita politica italiana e allora ecco che il suo cinema direttamente punta all’attualità con ‘12 Dicembre’. È il 1972, ma non bisogna dimenticare il 1969 e Piazza Fontana e la strage e Giuseppe Pinelli. Pasolini si rivede nel destino dell’anarchico, morire per essere quello che si è. Verrà ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’ nel 1975 e con il film le solite denunce, e poi verrà il novembre della sua morte, un film scritto troppe volte e che nessuno voleva che si evitasse: a cosa serve un intellettuale in un paese che deride la cultura? Restano per fortuna i suoi film, alcuni massacrati dalla censura, ma quello che resta è grande Cinema: con il suo lavoro, Pasolini ha ridato dignità a un’arte diventata troppo in fretta commercio.