Economia

L'anno che verrà

È consigliabile astenersi da previsioni economiche che si rivelino (altrettanto frequentemente) errate, il ‘fattore politico’ d’incertezza è invece garantito

Le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo saranno uno dei temi che segneranno i prossimi anni
3 gennaio 2019
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Se il canale di trasmissione della crisi economico-finanziaria globale dal 2007 ha visto un effetto “contagio” dal settore finanziario (con la sua sovraconcessione di mutui ipotecari e, quindi, sovraesposizione al rischio) a quello immobiliare (con il crollo dei prezzi) fino ancora a quello reale non certo solo negli Stati Uniti, ma anche oltreoceano sotto forma di crisi del debito sovrano, nel 2019 i fattori di rischio paiono essere altri. Intendiamoci: i sopra citati sono lungi dall’essere archiviati, se si considerano i livelli ancora esorbitanti d’esposizione finanziaria degli Stati (ad es. nell’Ue a 28 Paesi il rapporto debito pubblico/Pil è passato fra il 2007 e 2017 da 57,5% a 81,6%1), mentre nell’eurozona a 19 Paesi da 65% a 86,8%), i tassi d’interesse centrali in molte Nazioni ancora ai minimi storici (ad es. 0% nell’eurozona e -0,75 in Svizzera2) e la continuità con cui il settore finanziario mondiale sovraconceda prestiti domestici (passati, rispetto al Pil mondiale, da 157,20% nel 2007 a 184,12% nel 20163). Nemmeno le criptovalute, cioè quell’incredibile modalità di “pagare” (emettendo privatisticamente mezzo ed oggetto per farlo), sono divenute meno o più inflazionistiche di quanto già lo fossero. O la crescita internazionale più incerta rispetto al grado di aleatorietà, che essa già presenti. Questa volta, le incognite per l’andamento economico sono perlopiù di tutt’altra natura, cioè politica. Ad esempio, se durante la crisi dal 2007 i policymaker mondiali si sono presentati in modo compatto nel farvi fronte comune – quindi, il rischio politico era pressoché nullo –, non si può ora dire altrettanto: dovunque si volga lo sguardo, l’incertezza è palpabile. Guardiamo al Regno Unito: per quanto in parte già incorporata nelle previsioni economiche, la Brexit rimane sempre buona per un qualche scossone sui mercati internazionali – a dipendenza degli esiti anche parziali della trattativa entro il 29 marzo 2019 – oltre che per non poche nubi su Downing Street 10. Da verificare sarà anche, se la (con)cessione della Presidenza della Cdu (in mano di Angela Merkel dal 2000 fino al 2018) “in cambio” del Cancellierato fino al 2021 metterà la Germania al riparo dal rischio (ventilato a più riprese in questi mesi) di elezioni anticipate a fronte dei conflitti interni fra partner di coalizione di governo e dell’erosione di consensi fra l’elettorato storico. Ma anche in Francia la situazione rimane “fluida”, se si pensa alla rapidità con cui i gilet jaune − con la loro protesta iniziale per la tassazione di ogni litro di gasolio e benzina dal 1° gennaio 2019 con rispettivamente 7 e 3 centesimi di euro, forse, sproporzionata − sono balzati alla ribalta della cronaca.

Elezioni europee, futuro spartiacque

A ciò si aggiungono le elezioni europee dal 23 al 26 maggio 2019 con il rischio di stalli postelettorali, avanzata di partiti euroscettici e la “questione Italia”, che si è caratterizzata per i “balletti delle cifre” di queste settimane legati al bilancio pubblico 2019, ma non riesce a produrre un altrettanto costante flusso di notizie sulle tante eccellenze locali. Rimane, in ogni caso, il fatto che ogni strategia, che comporti l’ampliamento dello stock di debito pubblico esistente – stante volumi attuali oltre che strutturalità –, sia sbagliata ed aumenti i rischi reputazionali connessi al “sistema Paese” (che, a loro volta, influenzano il settore reale). Tornando al caso francese, le concessioni fatte – fra cui in termini di salario minimo (da innalzarsi di 100 euro mensili senza oneri aggiuntivi per il datore di lavoro) e defiscalizzazione di straordinari e bonus di fine anno – si possono prestare a future emulazioni in caso di insoddisfazione “di piazza” e, comunque, non ribaltano il principio tanto disatteso, per cui gli Stati debbano ridurre il loro iperinterventismo in termini di spesa corrente così da conquistare maggiori margini di manovra futuri e ridurre le necessità di fabbisogno finanziario da coprirsi tramite fiscalità. In tale contesto, le decisioni delle banche centrali – ricordiamolo: degli unici attori responsabili di avere scongiurato negli anni passati il collasso del sistema economico-finanziario globale – possono persino passare in secondo piano, se si considerano le insistenti preoccupazioni espresse dall’Amministrazione americana dinnanzi alla politica di rientro della Federal Reserve dalla strategia monetaria sovraccomodante degli anni scorsi. Che l’indipendenza decisionale degli istituti bancari centrali dall’esecutivo sia stata una conquista storica (e non possa, quindi, essere messa in discussione anche solo indirettamente), diviene un principio “evanescente” in epoche in cui l’instabilità è sempre più endogena, cioè proviene dalle fila interne ed è spesso fatta di tweet o dichiarazioni incaute e prese di posizione quando la “retromarcia” successiva è da subito scontata. Tutto ciò da un lato crea ulteriore aleatorietà – comunque, già intrinseca nell’attività economica stessa –, dall’altro possiede una caratteristica perlomeno altrettanto pericolosa, cioè la più totale imprevedibilità. Quanti l’avrebbero detto, a inizio d’anno 2018, che si potesse giungere a un incontro bilaterale con il leader nordcoreano con gli effetti di apertura economica, che potrebbero presto prospettarsi? O che gli Stati Uniti d’America, cioè la nazione più indebitata nei confronti del resto del mondo (a giugno 2018 per 19’306,58 mld. di dollari statunitensi4), potesse anche solo ipotizzare di imporre misure tariffarie su certi beni esteri a discapito di Paesi detentori di parte del loro debito?

L’imprevedibilità regna sovrana

Cinicamente, si potrebbe forse affermare che il trend sia in realtà chiaro: l’imprevedibilità regna (e piace). Se però non c’è nulla di male a volere sfruttare un qualche “effetto sorpresa” in quanto persino foriero di moltiplicata efficacia di risultato – si pensi a un annuncio rivolto ai mercati finanziari o a un’inaspettata misura economica dei governi –, non si deve dimenticare che (per sortire anche nel medio-lungo termine un esito) tali misure abbisognino sempre di essere rivolte alla “stabilizzazione (di una situazione contingente)”, ma mai a scopi “rialzisti” o “destabilizzanti (di uno status quo)”. Le previsioni di crescita nel 2019 saranno, quindi, massicciamente influenzate oltre che dai soliti agenti economici anche dalla capacità politica di gestire il cambiamento di visioni e approcci. Ad esempio, se è certo che la Bce dovrà iniziare a rientrare (anche in termini di tassi di interesse) dalla politica monetaria espansiva finora condotta – il cambio ai suoi vertici, nel 2019, potrebbe essere solo l’inizio –, quasi tutto dipenderà dalla cautela (o meno) con cui il nuovo presidente agirà: se qualsiasi decisione può in fin dei conti rivelarsi errata, lo è nondimeno la repentinità d’azione, che può comportare la “riapertura” di quella “ferita” (“mai rimarginata”) inferta dalla crisi del debito europeo con i suoi aspetti di inasprimento fiscale nei confronti del settore reale. Non si dimentichi, poi, che anche la Svizzera sarà segnata dalle elezioni federali (20 ottobre 2019) e da quelle cantonali (7 aprile 2019). Trovando quindi la “quadra” per una conclusione, si può affermare che – al più tardi, nel 2019 – sia certo che ai fattori d’incertezza se ne sia aggiunto uno ulteriore, cioè quello politico. Buon anno nuovo!

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