Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa dello scrittore. Il primo anniversario utile per cominciare a rileggerlo sul serio
1. I classici sono quei libri che si leggono “con previo fervore”, sosteneva Borges. Ti impongono quell’attenzione che meriterebbe ogni libro. Sono esigenti fino all’arroganza, totalitari. Vogliono vincere la partita prima di giocarla. O se ne stanno là, immobili, spiandoti mentre leggi per vedere se catturano anche te. Pubblicarli anonimi sarebbe una buona idea, inefficace solo per quelli troppo noti a tutti.
Al classico puoi avvicinarti con due atteggiamenti opposti: ti ci abbandoni, pregustando gli stupori per l’eccellenza, decisa da altri, di ciò che stai per leggere; o lo scruti con la lente per trovargli le minime macchie, dal malfidato che sei. Nei due casi ti rovini la lettura. Con i super-classici va peggio di così. Cercando il modo più libero e personale di leggerli, perché vuoi farti un’idea che sia una ma tua, rimandi la lettura a volte per anni o decenni.
2. Dieci anni senza García Márquez ma sembrano di più, forse perché l’ultimo grande romanzo è del 1981, quello che decise il Nobel. Ecco uno scrittore da Nobel, si sarà detto in giro per il mondo, e a Stoccolma. Aspetteremo il prossimo romanzo. Che arrivò dopo otto anni. Ma non parve decisivo. Aspettiamo il prossimo e poi basta, si pensò all’Accademia. Sei anni ancora e uscì ‘Cronaca di una morte annunciata’, il romanzo perfetto. La storia che si è scritta da sola. Il marchingegno poetico.
Dieci anni è il primo anniversario utile per cominciare a rileggere sul serio. Dopo un anno non è che rinnovare il ricordo della scomparsa. Ma dieci anni è la distanza giusta. Rimettersi seriamente su tutti i libri diventa quasi un dovere. Nessuna delle alternative convince. Nuove celebrazioni, tutte superflue a meno che non si dica qualcosa di inedito, si scovi un pregio non visto? O fare il punto sul successo che perdura, e se un romanzo più debole abbia guadagnato lettori, uno tra i più solidi li abbia persi? Oppure riprendere le curiosità sull’entusiasmo per la rivoluzione cubana, poi lo scetticismo, poi di nuovo l’entusiasmo e l’amicizia per il dittatore rivoluzionario? Questo è l’aspetto che meno interessa perché non interessa l’opera. Non la tocca, forse, anche se la sfiora.
3. Vent’anni prima del 1967 era già iniziato il viaggio di Gabriel García Márquez verso ‘Cent’anni di solitudine’. E vent’anni dopo non era ancora finito. Secondo Vargas Llosa non era un intellettuale ma un creatore, inconsapevole lui stesso della complessità dei mondi che creava. Tutto tendeva a Macondo, dunque, nella sua vita di scrittore, e quel che venne dopo e che ancora valesse la pena – la ‘Cronaca’ su tutto – veniva da Macondo. I tre libri fondamentali che giustificano e nascondono gli altri stanno in quindici anni: ‘Cent’anni di solitudine’ (1967), ‘L’autunno del patriarca’ (1975), ‘Cronaca di una morte annunciata’ (1981). Sul secondo però i pareri discordano più che per altri libri. Si trovava davanti alla grande prova: confermare un successo tanto debordante e universale. Perfino Borges l’aveva letto e aveva detto che era “uno dei grandi libri, non solo del nostro ma di ogni tempo”. Si applicò otto anni a forgiare un dittatore che risultò un mosaico di tiranni vivi e morti, tessendo un’altra grande storia, secondo molti, o arrivando alla caricatura di se stesso secondo altri (Vargas Llosa, per esempio).
4. I pregi di ‘Cent’anni di solitudine’ li conosciamo, qui vorrei accennare una riserva o due. Cos’ha in animo l’autore sui suoi personaggi? Quanto gioca, quando gioca, e quanto fa sul serio? Dove calca la mano – con la violenza e la crudezza, per di più comiche, con la scatologia violenta o cruda – qual è l’intenzione? Qual è la sua distanza dalla materia? Di quale amore ama i personaggi che crea, che manovra come un burattinaio? Quel senso di freddezza o indifferenza, nella lettura, è reale o apparente? Una forma di compassione, se c’è, non si vede. In altre parole: quanto è la realtà a tormentare e sconvolgere i personaggi e quanto la disinvoltura tecnica, estetica, morale dell’autore?
Riserva seconda. Dal socialismo reale – che comprovò del tutto fallito nel viaggio a Mosca – al realismo magico. Sparisce il sociale che infatti è assente nella sua narrativa. Comunità formate da individui vivissimi e folli – vivi perché folli –, ma non società né senso di giustizia o ingiustizia, condanna del potere o partecipazione umana visibile. Sapeva inconsciamente che non c’è redenzione. Che l’abisso tra governi e possidenti da un lato, dall’altro chi resta, buona parte dei quali nella miseria più sfigurante, era incolmabile Per questo credeva nell’utopia sociale, cioè ancora nell’irrealizzabile. E per questo la fece reale in letteratura nel modo irripetibile che sappiamo.
5. Il boom latinoamericano è stato il fenomeno più eterogeneo delle lettere universali. L’esplosione narrativa di un continente creata, involontariamente, dall’agente catalana Carmen Balcells. L’amico scrittore Caballero Bonald le segnala un certo colombiano, siamo ai primi degli anni Sessanta. Lei lesse ‘Il funerale della Mamá Grande’ e diede da leggere al marito ‘Nessuno scrive al colonnello’. Fu colpita dall’espressività e incisività delle frasi. Una su tutte: “Al senatore Honésimo Sánchez mancavano sei mesi e undici giorni prima di morire quando incontrò la donna della sua vita”.
Isabel Allende sostiene che la sua generazione fu la prima consapevole di appartenere a un continente in cui la letteratura dei vari Paesi era diversa e comune, varia e una. Salvo le letterature argentina e messicana, quelle di Perù e Venezuela, Colombia, Cile, Uruguay si ignoravano l’un l’altra per la distribuzione inesistente. Quando quelle letterature tornarono in America Latina “scoperte” e stampate dagli editori spagnoli tutto cambiò.
6. Aracataca è la città dello scrittore. Ci visse fino a otto anni ma tutto il suo mondo nasce là. Là vivevano i nonni che lo allevarono, le prime due muse per il bambino che assorbiva ogni cosa. Non smise mai di guardare il mondo attraverso i loro occhi, oltre che con i suoi.
Nel 2006 si propose di ribattezzare Aracataca col nome della città di ‘Cent’anni’, Macondo, ma prevalse il “no”. Non sai come avvicinarti alle case degli scrittori. Entri, nel massimo silenzio, osservi e cerchi tracce di vita. Come tornare nei luoghi importanti della propria vita, di cui non trovi che l’involucro. Ed Aracataca è la città-museo. Non puoi fare un passo senza trovare tracce dell’autore: murales e statue, nomi di librerie, hotel, night club e barberie. Il banchiere in pensione Fernando Vizcaino ha trasformato la casa in ostello, la “Magic Realism Tourist House”, dipingendo le pareti e arredando vivacemente come si addice a Macondo. Ricavo queste notizie da un articolo del “New York Times”. Tutto è cambiato alla morte dello scrittore, naturalmente. E ora sono passati dieci anni e molto di più ci si aspetta dalla reazione all’uscita del libro postumo, ‘En agosto nos vemos’.
7. Carmen Balcells iniziò a trattare con gli editori per far conoscere García Márquez e Vargas Llosa, Donoso e Carlos Fuentes. Pensò che da vicino sarebbe stato tutto più facile, ne convinse più che poté a trasferirsi a Barcellona. García Márquez lo farà subito dopo l’uscita di ‘Cent’anni’, Vargas Llosa poco dopo. Pensarono che fosse la cosa giusta e conveniente in ogni senso. Un ambiente intellettuale impareggiabile e un’agente esperta e tenace, ben presto la migliore e la più potente. Al ripensarvi si commuoveva, la temutissima Balcells. Diceva che ad essere terrorizzata era lei, quando iniziò così giovane, ad aver a che fare con scrittori di quella levatura.
“Al senador Honésimo Sánchez le faltaban seis meses y once días para morir cuando encontró a la mujer de su vida”. Il boom latinoamericano nasce da un consiglio di Caballero Bonald e da questa frase.
8. Ricordavo che fosse un incipit ad aver conquistato la Balcells. Rivedendo il filmato mi accorgo che dice “frammento”. In ogni caso appartiene ad un autore dagli incipit magistrali. Non è un caso se ciò che segue alle righe iniziali spesso sia all’altezza dell’inizio, poiché è generato da quell’inizio, come accade per il primo verso dei sonetti. La controprova sarebbe questa: leggere l’incipit dei romanzi più deboli. Quello di ‘Cent’anni di solitudine’ è all’altezza delle aspettative: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Anche nell’avvio di ‘Cronaca di una morte annunciata’ troviamo l’incontro di morte e quotidianità, violenza e banalità: “Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5.30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo”. C’è l’avvio brevissimo e ugualmente in medias res: “Allora mi guardò” (‘Occhi di cane azzurro’). In quello di ‘Nessuno scrive al colonnello’ niente contrasti inaspettati, solo quotidianità, al modo consueto svelto e leggero: “Il colonnello aprì il barattolo del caffè e si accorse che ne era rimasto appena un cucchiaino”.
9. Sulla nascita dei grandi libri si accumulano gli aneddoti. Di bocca in bocca si scontornano, trasformano, spariscono, ne appaiano altri. Lo stesso autore riassume i più essenziali. Racconta che si è chiuso in una stanza per 18 mesi dicendo alla moglie Mercedes di non disturbarlo, specialmente per problemi economici. Un giorno Mercedes bussa alla porta perché è proprio finito tutto. Lui esce, sale in macchina e va a impegnarla. Ritornando le consegna i soldi dicendo: ne hai per dieci anni. Ma i dieci anni durano tre mesi.
Un altro giorno chiama il proprietario di casa per i tre mesi di affitto che deve avere. Mercedes bussa e chiede al marito quanto ci vuole per finire il romanzo. Sei mesi. “Fra sei mesi gliene dovremo nove ma li avrà”. Il romanzo ora è finito e vanno insieme alla posta per spedirlo a Buenos Aires. L’invio costa 83 pesos, loro ne hanno 45, Gabriel spacca in due il manoscritto e ne spedisce metà. Tornati a casa, prendono stufa, phon e frullatore e Mercedes va a impegnarli: 50 pesos. Invio della seconda metà, per 48 pesos, e il resto è noto, sbalorditivo e rapidissimo.
10. Conclusione ed Errata corrige.
Quanti libri veramente grandi deve aver scritto un autore per esser ritenuto grande? Ne basta uno, forse, anche se la metà di quell’uno fosse da gettare. Ma García Márquez ne ha scritti di più.
Riguardo alla rettifica: dove qui sopra si dice – alla nota n. 1 – come si leggono i classici, si può cancellare la seconda opzione. I libri e specialmente i romanzi dovrebbero leggersi sempre con abbandono, sempre fiduciosi.