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Jean-Philippe Jaccard, dalla Russia con amore

Lo slavista: ‘L’amore per una civilizzazione non dipende dal governo in carica, altrimenti non ci sarebbero molte culture che meriterebbero interesse’

Jaccard, nel riquadro. Nella foto principale, Elena Osipova, 77enne artista e attivista russa prelevata dalla polizia moscovita durante le proteste di piazza
18 febbraio 2023
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Membro del comitato editoriale della rivista Russian Studies (San Pietroburgo, 1995-2000), della collana ‘Slavica Helvetica’ (Peter Lang) e del comitato di lettura della collana Modernités slaviques (Lione), lo slavista Jean-Philippe Jaccard insegna all’Università di Ginevra dal 1985.

Professor Jaccard, lei ha insegnato letteratura russa fino all’anno scorso all’Università di Ginevra. Da quasi un anno la Russia è additata da un Occidente più o meno compatto come il nemico della pace mondiale. Come ci si sente ad amare un Paese in guerra?

L’amore per una civilizzazione non dipende dal governo in carica, altrimenti non ci sarebbero molte culture che meriterebbero il nostro interesse. Nessun Paese può vantare una storia politica senza macchie. Ovviamente, questa guerra brutale, per certi aspetti inattesa e anacronistica, mette, noi specialisti della Russia, in una situazione inedita, interrogandoci sulla maniera in cui insegniamo la cultura del Paese e avviciniamo la sua dimensione imperialista. Dal 24 febbraio 2022 conviviamo con una sorta di crollo epistemologico, ma ciò non cambia l’amore per la cultura di questo grande Paese, capace spesso di proporre forme di resistenza all’ideologia dominante. È una resistenza che si iscrive nella modernità del XX secolo, mentre il discorso officiale riposa su una cultura nazionalista e imperialista che rimonta al XIX secolo.

Dal 24 febbraio 2022 i media ci parlano ogni giorno di questa guerra. Quale è il suo giudizio sull’informazione che ne abbiamo?

Sono sempre stato molto critico sul modo col quale i nostri media si occupano della Russia, Paese che sembra interessare solo quando inquieta, come è il caso oggi. Ciò è stato causa di incomprensione, un’incomprensione che Putin oggi cavalca parlando di russofobia. Oggi, si parla molto di Russia come si parla di Ucraina, immenso Paese che pochi erano in grado di collocare sulla carta prima del 24 febbraio. Sarebbe stato corretto interessarsi a questi due Paesi anche prima delle ostilità. In merito all’informazione, bisogna dire che la situazione è relativamente chiara e l’aggressione evidente. Da parte russa, il discorso politico è tanto grottesco, la propaganda così pesante e le menzogne così grandi che è difficile anche farne la caricatura. D’altra parte, le voci pro-russe che emergevano nella stampa qua e là si sono poi progressivamente affievolite. Naturalmente, anche da parte ucraina abbiamo una propaganda di guerra, con tutto ciò che implica. La nostra informazione tende a passare un po’ sotto silenzio certe posizioni ucraine (le critiche al Cicr, i rimproveri arroganti a Paesi giudicati non abbastanza allineati, ecc.) o anche a non rilevare fatti che si avvicinano a una politica di epurazione culturale. Ora, ciò dovrebbe essere possibile senza che si sia classificati tra i "filorussi".

L’informazione che abbiamo è appiattita sugli eventi militari. L’interesse per la popolazione civile è concentrato sull’Ucrania. Cosa succede in Russia su questo fronte? Come si reagisce e come si organizza il dissenso?

È un punto importante. Il problema è che i giornalisti indipendenti rimangono nella capitale, eventualmente a San Pietroburgo. Per informarsi, la conoscenza del russo è necessaria. Gli organi di informazione indipendente hanno lasciato il Paese e lavorano dall’estero (certi, come Meduza, in inglese) anche se attraverso i loro contatti possono coprire luoghi discosti. Qualcosa trapela sul rifiuto della mobilizzazione in certe province attraversate dal problema etnico (per quale ragione un buriato di Siberia dovrebbe andare a combattere per la grandezza dell’impero?) o sulle madri combattenti, già molto attive nelle guerre d’Afghanistan e di Tchechenia o ancora sulle centinaia di migliaia di giovani che s’imboscano o lasciano il Paese per non combattere. Naturalmente, la repressione è feroce e i principali leader restati in Russia sono ora in prigione o oggetto di procedure giudiziarie. Se esiste una resistenza clandestina (certi arrivano a parlare di resistenza armata) è, finora, poco visibile e si manifesta soprattutto attraverso l’espatrio. Certo, ci sono manifestazioni spontanee, magari isolate ma – fatto nuovo – diffuse su tutto il territorio e non solo a Mosca. Sono, per la maggior parte, happening artistici, che terminano inevitabilmente male per i responsabili.

In Russia esiste una tradizione di opposizione ‘underground’ che precede la stessa Perestroika e che ora riemerge. Come si manifesta e come si distribuisce sul territorio? Quali sono le modalità di azione e l’efficacia nel contrastare i piani di Putin?

Non c’è praticamente mai stata in Russia un’opposizione politica e la critica al regime ha assunto spesso forme d’espressione artistica. Nell’800, erano gli scrittori e gli artisti a denunciare le tare dell’autocrazia. Questo vale anche per il XX secolo e la storia della dissidenza è ben nota. Si conosce invece meno la cultura underground, che non ha mai affrontato direttamente il potere politico e i cui attori hanno una posizione defilata rispetto alla cultura ufficiale. Hanno creato una cultura parallela, che è stata definita "Seconda cultura". Non una vera opposizione, ma piuttosto una forma di resistenza che ha suscitato una seria repressione e non è sparita con la fine dell’Unione Sovietica. Se negli anni 90, in regime di massima libertà, la si notava meno, l’arrivo di Putin l’ha rilanciata. E nella transizione tra un autoritarismo sempre repressivo e il totalitarismo di oggi, questa resistenza artistica ha preso una dimensione di cui l’Occidente si è accorto solo in qualche caso emblematico come quello delle Pussy Riots o dell’artista Piotr Pavlenski. All’inizio dell’invasione, queste manifestazioni si sono diffuse un po’ su tutto il territorio russo e, accanto a questi attori, anche partecipanti della cultura underground degli anni 80 hanno espresso il loro rifiuto della guerra: penso a star del rock come Boris Grebenchtchikov e Iouri Chevtchouk, leader di gruppi come Aquarium e Ddt, anche se il futuro di queste manifestazioni è reso incerto dall’abbandono del territorio nazionale da parte di molti artisti e dal fatto che altri, rimasti, siano stati ridotti al silenzio.

Da studioso della cultura russa, la sua conoscenza della letteratura si è sempre saldata a quella della realtà politica del Paese. Come vede lo sviluppo di questa guerra?

Nessuno, credo, può oggi rispondere a questa domanda. Allo stesso modo che pochi ne hanno saputo prevedere l’inizio. Molti fattori entrano in gioco in un conflitto che, per locale che sia, ha effetti planetari. Molte anche le incognite. Quale la posizione degli Stati Uniti dopo le elezioni presidenziali del ’24? Quale l’impatto in un inverno di cui non possiamo prevedere la durezza? Quali le conseguenze dell’approvvigionamento caotico in cereali nei Paesi minacciati dalla fame? In che misura questa situazione alimenterà la retorica del Cremlino (e della Cina) a favore di un multipolarismo che trova ascolto favorevole in questi Paesi? E cosa sappiamo veramente di ciò che accade al Cremlino, la cui opacità è leggendaria? Lavoro sulla cultura e lascio ai politologhi di disquisire su questi scenari. Credo però che la guerra durerà e che alla fine la Russia avrà perso molto, anche se al termine delle negoziazioni dovesse mantenere qualche chilometro di territorio. E molte generazioni saranno necessarie per ristabilire una nuova ‘normalità’.

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