laR+ Il ricordo

Un angolino imprecisato della mente

Là dove risiedono infinite e polverose domande sulla ragione delle cose che vediamo (ancora un ricordo di Franco Facchini)

Franco Facchini, poeta, si è spento lo scorso 16 aprile
25 aprile 2024
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Franco Facchini è scomparso nel tardo pomeriggio del 16 aprile, all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona. Nato a Bologna nel 1951, aveva vissuto un decennio a Trieste per poi trasferirsi a Zurigo, nel 2003. Come un vagone su un binario morto dodici anni fa era giunto a Bellinzona, in Via Canonico Ghiringhelli, al terzo piano di una palazzina di cemento, di fronte al Castello di Sasso Corbaro, accanto al cimitero e all’ospedale. Con la pandemia, i rari visitatori venivano accolti sul balcone, affacciato su quel paesaggio allegorico, ad assistere a una rappresentazione di cui erano al contempo spettatori e attori. Una messa in scena che nasceva spontaneamente dal carisma di Franco, dalla sua capacità di porgere con assoluta naturalezza argomenti peregrini, perle di erudizione letteraria, musicale, filosofica, bibliofila, in un conversare affascinante, vagamente testamentario. Mentre giungeva dal di dentro musica antica o la melodia di un sitar, Franco poteva recitare versi romagnoli di Olindo Guerrini o inglesi di Richard Crashaw, sul mondo creato dal Nulla, di Wallace Stevens, nuvole che passano sul mare, di Angelus Silesius o Giorgio Baffo. O magari una sua filastrocca, tanto bizzarra quanto filosofica: «Due lunghissime gambone / tengon alto il pesciolone, / e una coda ad esse stretta / tiene su foglia e gabbietta. / La ragione del mistero / è che niente è vero vero» (F. Facchini, Pesciolini e pescioloni, Genova, Edicolors, 2001). Le sue parole accarezzavano i volumi dell’amato Leopardi come fossero amanti, di John Donne, del Marino e fintanto che il respiro glielo permise, quegli stessi volumi comparivano come d’incanto dal Sancta Sanctorum della sua biblioteca. Ma non erano esclusi cotechini e ciccioli, osannati e delibati, racconti di estati trascorse a Cesenatico, nell’albergo di famiglia, considerazioni sull’esistenza, tra il serio e il faceto. Con quel cibo dell’anima, che era solo suo, nutriva i presenti generosamente, tenendoli a una certa distanza.

Lo sguardo critico

Quella stessa distanza, Franco Facchini l’aveva coltivata come una seconda natura, in tutte le sue forme, distanza che non escludeva e perciò affettuosa, amichevole, condivisa, ma anche subita e sofferta. Una condizione esistenziale e una scelta di vita di cui qualche lume emerge, per riflessi e bagliori, da pochi scritti in prosa, dispersi in giornali, libretti, plaquettes, ormai scomparsi o sul punto di scomparire. Franco vi esercitava lo sguardo critico, leggendo testi amati, di Catullo, Lucrezio, Michelangelo, Archibald Randolph Ammons, Giampiero Neri, Angelo Maria Labia, Johannes Kühn, Federico Hindermann, Edgar Allan Poe, ed eseguendo quei versi, facendoli risuonare nella loro oscurità, trovava il senso del proprio esistere, come un pipistrello che nella notte vede senza vedere, e altro non vuole.

Vi ricorrono le riflessioni sulla distanza che quei poeti vollero mettere tra loro e il mondo, rifugiandosi nel silenzio, nel non essere, nella ricerca di un senso sfuggente, indagato con la poesia. Lucrezio si sarebbe «allontanato, quasi svanendo nel nulla, lasciando solo qualche scarna traccia […], di certo andando ad abitare la sua memoria, il suo pensiero, che ancora rasserena qualcuno nelle notti insonni che lo attraversano» (‘Azione’, 17, 25 aprile 2016). E così l’andare di Catullo «verso il territorio inesplorato, verso il silenzio, agognato innalzato ad unica possibile ragione che possa commuovere ogni intelligenza, solo frequentabile ricovero, spazio dove finalmente non essere» (‘Azione’, 35, 29 agosto 2016). Lo svanire di Ammons («Ora sono nelle cose / così piccolo che quando / dico bù scompaio», ‘Azione’, 26, 27 giugno 2016), di cui Franco si appropria variandolo: «Piccolo sono / talmente / da sembrare / invisibile // ed è sufficiente / pensarlo / per farmi davvero / svanire» (F. Facchini, Disperata e senza luogo, Bellinzona, edizioni sottoscala, 2012, p. 7).

La poesia è indagine, filosofia, meditazione: Lucrezio «ha indagato la natura delle cose, trasformando la filosofia in poesia, la poesia in filosofia, anzi le ha fatte diventare una cosa sola indivisibile» (art. cit.). La poesia di Ammons, «attraverso uno sguardo indagatore […] non può far altro che guardare al di là di quello che vede, di quello che sente, e rischiarare, con la sua muta e costante presenza, l’universo sonoro della parola e del respiro che la anima» (art. cit.). Leggere la poesia significa fare luce – al di qua o al di là della ragione – sull’intimo senso delle cose: «Ma è tutto quello che quei versi nascondono a farmi scendere dentro una luce dove ogni istante deve rimanere là dove si trova, a raccontarmi delle cose che non riesco a vedere e che sento intorno, frullare tra i rami degli alberi, nello sferragliare del treno» (‘Azione’, 22, 30 maggio 2016).

Il Distacco

Se nella sua rubrica del settimanale ‘Azione’, Declinando il pensiero, Franco avesse accolto anche l’amatissimo Meister Eckhart, e con lui tanti mistici, Czekpo su tutti, ci avrebbe certamente parlato del Distacco, inarrivabile condizione di chi non desidera più Nulla per accedere al Tutto. Franco non parla mai del Grund der Seele, del fondo dell’anima, ma in più occasioni parla di un «angolino della mente», ora buio, ora imprecisato, un «angolino della mente, dove risiedono infinite e polverose domande sulla ragione delle cose che vediamo, sull’istante che raccoglie il nostro sguardo. Domande che non trovano risposte, lasciando il pensiero a vagare in una sorta di viaggio verso una zona sconosciuta della nostra assurdità» (‘Azione’, 26, 27 giugno 2016).

Il distacco porta Franco da Zurigo a Bellinzona, a Via Canonico Ghiringhelli, alla biblioteca dell’erudito, alla stanza del poeta, all’angolino della mente, in un percorso che ha una sua logica, che sfugge a un mondo per cui escludersi vuol dire fallire. Proprio in questo senso vanno capite le parole con cui Franco concludeva il profilo biografico nel risvolto di copertina del suo ultimo libro di poesia, La parvenza del vero (Milano, Marcos y Marcos, 2020):

“Quasi tutti i miei scritti giacciono in un angolo, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, in attesa di essere pubblicati o consegnati a un futuro di oscurità. E in tutti questi anni ho voluto vivere nella distanza. Ho vissuto esiliato nelle notti, protetto da quei silenzi, da quelle precarie oscurità. Ho seguito una strada senza inizio né fine. Ho perseguito il fallimento, considerandolo come unica possibile salvezza. Ho voluto non esserci. Ma l’amicizia e il mare mi hanno tenuto dentro questa fragile presenza. E persino distanza, fallimento, salvezza lasciavano il loro senso altrove, in un territorio sconsolato”.

Non credo che Franco riuscirà a scomparire davvero, il suo pensiero resiste al tempo nelle sue poesie, che ne sono, per l’appunto, la declinazione. Quel mondo che in fondo lo infastidiva saprà fare tesoro di quelle sue solitudini, «anni trascorsi a decifrare la vita», a scrivere per capire, capire anche per quale ragione continuasse a scrivere:

“Eppure questi versi sono stati scritti. E per qualcosa si scrive, anche se solo per arrivare a un senso delle cose non chiaro e inarrivabile. Sembrano essere testimonianza, forse sterile, di una superstite fiducia nella poesia e nell’esistenza” (F. Facchini, Catullo, perché ogni cosa è vana. Declinando il pensiero. ‘Azione’, 35, 29 agosto 2016, p. 45).

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