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‘Bianco o nero’ per me pari sono

A Palazzo Reali una prospettiva inedita su un nucleo di opere della Collezione Masi, tra luce e non colore (o quello che li contiene tutti)

Andrea Gabutti, ‘Senza titolo’, 2005
(Masi)
15 novembre 2023
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A piano terra l’arte contemporanea classica, la parte più storica un piano sopra e, più in alto di tutte, quelle opere che da tempo non sono esposte o che mai, sino a oggi, avevano avuto un palcoscenico. Quelle di ‘Bianco o nero – Opere della Collezione 1935-2021’, a Lugano al Museo d’arte della Svizzera italiana, o Masi, nella sede di Palazzo Reali. Sono in mostra dallo scorso 11 novembre e vi resteranno per buona parte dell’anno che verrà, nell’apparente malinconia dell’assenza di colore, ma “capaci di dare vita a composizioni tanto contrastanti quanto armoniose”, garantiscono le curatrici Cristina Sonderegger e Francesca Rosi, partendo dal concetto che il nero, alla fine, dei sette colori dell’iride è la somma.

Sono alcuni “coup de coeur”, alcuni “amori della collezione”, per ammissione stessa di Sonderegger e Rosi, ad aver portato alle cinque sezioni che compongono l’esposizione, all’interno delle quali pittura, scultura, fotografia, arte concettuale e cinetica degli ultimi ottantasei anni parlano e si parlano, e il linguaggio è comune. Dal 1935 della ‘Scultura n. 25’ di Fausto Melotti al 2021 delle mani di Monica Bonvicini (‘Up in arms’), per intenderci, un viaggio nel tempo che abbraccia numi tutelari e non, viventi e non più tali, affini e opposti, acquisizioni e donazioni, alcune provenienti dagli artisti stessi.


Bonvicini
Monica Bonvicini, ‘Up in Arms’, 2021

Infinita mutevolezza

‘Bianco o nero’ si apre all’insegna degli ‘Spazi dinamici’, quelli del ‘Prima o poi’ di Giulio Paolini, opera che l’artista definisce “senza inizio e senza fine” e che già, nella sua infinita mutevolezza, ha avuto spazio al piano inferiore e che oggi torna in forma diversa, sempre nel variabile allineamento di riquadri bianchi e neri. Spazialità arriva dai ‘Fori su carta’ di Lucio Fontana e dinamicità dalla ‘Strutturazione pulsante’ di Gianni Colombo, uno dei punti di riferimento dell’arte cinetica, qui in un’opera del 1959 dotata di dispositivo elettromeccanico che muove gli ordinati blocchi di polistirolo che perdono immediatamente la loro staticità. In modo diverso, lo stesso accade nello ‘Spazio elastico’ del 1974, dove l’interazione tra la luce e gli elastici applicati da Colombo alla regolarità della struttura minano volutamente l’equilibrio della stessa.

Da una stanza all’altra e ci si ritrova in ‘Natura e artificio’, salotto in cui dialogano i mondi pop art, new dada e land art. Fiorenza Bassetti ha donato al Masi la sua ‘Granata’ (1999, un po’ bomba a mano, un po’ frutto e un po’ cioccolata), il ticinese Fernando Bordoni la ‘Pneuimmagine’ del 1971, tramite verso l’astrattismo con il quale egli viene identificato. Sono ‘artificio’ i ganci per reggiseno di Margherita Turewicz Lafranchi, avvinghiati in una sensuale ‘Unione’ (2000) e ‘natura’ i ‘Weybourne’ del britannico Roger Akling, che tramite apposita lente ha chiesto al sole di ‘disegnare’, bruciando con regolarità i supporti di legno raccolti dall’artista sulla spiaggia a un passo da casa. Spazio di transito è ‘Natura morta’, che – del tutto imprevedibilmente – omaggia la fotografia del da poco scomparso Alberto Flammer con gli ‘Imbalsamati e resti’ datati 1995. Giusto di fianco, l’‘Ossobello’ di Bertozzi e Casoni (Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni, il secondo dei quali scomparso nel maggio di quest’anno), un ‘floreale’ e ceramistico assemblaggio di resti umani e animali al limite dell’ironico, un inedito del Masi. ‘Ossobello’ si specchia coi pennuti imbalsamati di Flammer, a partire dalle ossa.


Masi
Bertozzi & Casoni, ‘Ossobello’, 2002

Pensiero

Nella stanza del ‘Corpo svelato’ domina l’assenza di quello che sarebbe contenuto in ‘Verstummelung 71/6’ di Ingeborg Lüscher, donazione della stessa e fresco di un complesso restauro in collaborazione con l’artista. In quella che è un’evocazione della transitorietà dell’esistenza, ci guardano con una certa drammaticità mantello e stivali sui quali sono applicati mozziconi di sigaretta, uno dei tratti distintivi dell’artista nel suo utilizzare materiali della quotidianità, elementi che poco hanno a che fare con quelli propri del mondo dell’arte. I piccoli bianchi cervelli in paraffina del ‘Senza titolo’ di Andrea Gabutti, invece, ognuno dei quali inserito in supporti anch’essi bianchi, compongono un lavoro sul pensiero datato 2005 che sta tra la fantascienza kubrickiana e lo smarrimento più piacevole. Gabutti ha voluto rappresentare le sue emozioni eliminando ciò che per lui è il superfluo, e cioè il colore – Rosi riporta sue parole, constatando come la maggior parte delle sue opere siano in bianco e nero – e noi lo assecondiamo, apprezzando il momento.

Mani

Ci lasciamo alle spalle la forma curvilinea di Robert Therrien, dalla quale si sono appena svelati corpi di ogni forma e natura, e c’immergiamo nei ‘Giochi di luce’ dell’ultima fermata, luogo nel quale il dialogo più immediato è quello tra le mani di Gianfredo Camesi la cui apertura è una forma di luce (‘Forme de lumière, 1997) e quelle di Monica Bonvicini, nella già citata opera tridimensionale ‘Up in arms’, braccia e mani ancor più saldamente strette dal vetro di Murano, la cui trasparenza diventa corpo una volta poste su di una lastra di vetro nera, a dare ulteriore senso, giusto alla fine, al titolo della mostra (www.masilugano.ch).


Masi
Gianfredo Camesi, ‘Forme de lumière’, 1997

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