Ticino

Covid Pass e lavoro, un ‘male’ necessario

Il mondo imprenditoriale e sindacale non è entusiasta della misura, ma ritiene sia un modo per proteggere la salute dei lavoratori

Da lunedì nei bar, ristoranti e palestre si entra solo così
(Ti-Press)
8 settembre 2021
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Aziende chiamano. Le prime telefonate all’Associazione industrie ticinesi, dice il suo direttore, sono arrivate già durante la conferenza stampa in cui il Consiglio federale informava fra l’altro della possibilità per i datori di lavoro di chiedere, da lunedì prossimo, il certificato Covid ai propri dipendenti. «Come al solito si prende una decisione ma poi l’applicazione di quanto deciso è abbastanza complessa - osserva Stefano Modenini -.  Le aziende associate che questo pomeriggio ci hanno interpellato vogliono sapere soprattutto come comportarsi con i collaboratori che non hanno il certificato. Risponderemo anche nero su bianco, verosimilmente domani. Diremo loro che il dipendente vaccinato potrebbe essere dispensato dall’uso della mascherina sul posto di lavoro, mentre chi non lo è o non ha fatto il tampone potrebbe essere soggetto a restrizioni comunque sostenibili: uso della mascherina per tutto il tempo trascorso in ditta, non accesso alla mensa aziendale oppure il telelavoro se la persona è attiva in ufficio. Ciò che come associazione possiamo fare - aggiunge Modenini - è dare solo dei consigli, delle raccomandazioni. Poi da lunedì saranno le singole ditte a fissare delle regole in base anche ai rispettivi piani di protezione. Regole che si auspica equilibrate tenuto conto che non c’è l’obbligo vaccinale. Teniamo comunque presente che tra i lavoratori frontalieri, che sono poco più del cinquanta per cento della manodopera, il numero dei vaccinati dovrebbe essere elevato considerato il recente dato sull’andamento della campagna vaccinale in Italia. E per quanto riguarda i residenti la percentuale di vaccinati è più alta della media svizzera. È tuttavia chiaro che basta una sola persona positiva al Covid a provocare potenzialmente un focolaio. È quindi indispensabile mantenere alta la guardia».

Albertoni: non vedo rischi di discriminazione

Per l’Unione svizzera delle arti e mestieri, l'estensione del certificato Covid decisa dal Consiglio federale metterebbe a rischio le vendite delle piccole e medie imprese e i posti di lavoro. Secondo l'Usam, segnala un dispaccio dell'Ats, il Consiglio federale starebbe ancora una volta discriminando i settori e le imprese che sono già stati gravemente colpiti dalle restrizioni: le aziende colpite dall’estensione del certificato rischierebbero di subire delle perdite e dovrebbero pertanto essere indennizzate. Per Luca Albertoni, direttore della Camera di commercio del Cantone Ticino, l’intento del Consiglio federale è chiaro e per certi versi giustificato: spingere più persone possibile a vaccinarsi. «Che per il mondo del lavoro, al di fuori dei settori colpiti dall’estensione del Covid Pass (ristorazione al chiuso, cultura, sport e tempo libero), si possa inserire la possibilità dell’obbligo del certificato nei piani di protezione, previa consultazione dei lavoratori, rispetta il principio di proporzionalità», afferma Albertoni. «Un obbligo generalizzato sarebbe molto più difficile da gestire», aggiunge il direttore della Camera di commercio che precisa che non intravvede un rischio di discriminazione per chi non è vaccinato. «Le condizioni per avere il Covid pass sono quelle di essere vaccinato, guarito o negativo al test. Restando fermi questi tre criteri, non vedo rischi di discriminazione anche perché il tutto è inserito in un contesto di misure di protezione della salute sul posto di lavoro», afferma. «Se in futuro dovessimo ragionare su un obbligo di vaccinazione allora i termini cambierebbero. Qualche tensione la potremmo registrare, come sta avvenendo nella società civile e le aziende sono comunque espressione della società», commenta.

“L’estensione del certificato Covid è una misura spiacevole, ma purtroppo necessaria”, afferma la federazione sindacale Travail.Suisse in una nota, indica l'Ats, in cui comunque si critica il possibile uso del pass sanitario anche sul posto di lavoro, Una posizione simile ce l’ha anche l’Uss, l’Unione sindacale svizzera. Non si dovrebbe lasciare all'arbitrarietà dei datori di lavoro l'introduzione di un certificato e la sua applicazione, scrive Travail.Suisse, secondo cui la protezione dei dati non può essere garantita e il potenziale di discriminazione è troppo grande. Inoltre, aggiunge, i concetti di protezione non devono assolutamente essere abbandonati, altrimenti l'effetto sulla pandemia rischia di diventare negativo.

Ricciardi: non deve essere una vessazione

Renato Ricciardi, segretario cantonale dell’Ocst, l’Organizzazione cristiano sociale ticinese, valuta invece favorevolmente questa misura ulteriore di protezione dei lavoratori nelle aziende. «Il problema semmai è quello di esercitare una eccessiva pressione sui lavoratori. Deve rimanere uno strumento di protezione e non una vessazione», aggiunge ancora Ricciardi che pone però il problema del finanziamento dei test anti Covid in azienda. «La preoccupazione è che vengano messi a carico dei lavoratori. Noi chiediamo che il sistema di test in azienda rimanga a carico dello Stato». A livello nazionale Travail.Suisse è pure molto critica nei confronti della fine del finanziamento pubblico dei test individuali. “Una soluzione con alcuni test gratuiti al mese sarebbe stata migliore”, secondo il presidente di Travail.Suisse Adrian Wüthrich. Nei settori in cui l’estensione del Covid Pass sarà realtà per la federazione sindacale “la certificazione obbligatoria minaccia di portare a ulteriori perdite di fatturato”. “È incomprensibile che le agevolazioni per lavoro ridotto non siano state estese oltre la fine di settembre”, conclude l’organizzazione, chiedendo un rapido intervento in questo senso».

Anche l’Uss è preoccupata per la protezione dei dati sul posto di lavoro e in una nota chiede controlli più severi. Teme inoltre per i salari e i posti di lavoro, in particolare nel settore alberghiero e della ristorazione. La disoccupazione parziale deve continuare a essere possibile in queste branche, aggiunge.

Gargantini: ci sono aspetti ancora da chiarire

Afferma il segretario del sindacato Unia Giangiorgio Gargantini: «Abbiamo sempre sostenuto tutte le misure proposte dalle autorità a protezione della salute, dunque anche stavolta diciamo sì al certificato Covid in generale. Riguardo alla sua estensione al posto di lavoro avevamo chiesto chiarezza da parte delle autorità per evitare che le aziende si muovessero in ordine sparso. Da una prima lettura dall’ordinanza c’è un po’ più di chiarezza, ma non mi sembra ancora sufficiente. L’ordinanza dice che le aziende sono autorizzate a verificare se i lavoratori possiedono il certificato, se questo serve a stabilire misure di protezione opportune. Ma chi definisce cosa è opportuno e chi lo controlla? C’è anche scritto che i lavoratori o loro rappresentanti devono essere coinvolti: il che è positivo, è quanto rivendichiamo da tempo. Sono due aspetti che approfondiremo per stabilire se siano sufficienti a evitare che ogni azienda faccia in sostanza quello che vuole». 

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