salute mentale

Anatomia del sentimento, quando l’astratto trova posto in noi

Il nostro corpo non è solo fisico. Un’altra realtà si muove nelle nostre viscere, quella emotiva e sentimentale, che determina il nostro agire

Ti pervade, lo senti, si muove all’interno del corpo eppure non si vede
(depositphotos)

C’era un bambino che frequentava le scuole elementari, forse la terza, magari la quarta, dubito la quinta. Un giorno, annoiato, mentre scorreva le pagine di un libro di scienze alla ricerca di qualcosa di interessante, si interruppe di punto in bianco sul capitolo “anatomia del corpo umano”. Finalmente qualcosa che riguardava lui, personalmente. Chissà quando lo avrebbero trattato a scuola. Era esaltato ma non sapeva bene come comportarsi, se fare finta di nulla, come se quelle immagini non fossero sconcertanti, imbarazzanti, non lo mettessero a disagio o gli provocassero un fastidio, ribrezzo, addirittura gli facessero un po’ schifo. Figure di persone nude, anzi, più che nude, trasparenti. Copie di uomini e donne senza pelle, con muscoli, organi, ossa, vasi sanguigni, cervello, tutto in mostra, evidente. Riproduzioni di “cose” del e nel corpo che faticava a credere fossero anche parte di sé. Disorientato e sudaticcio, era come se stesse osservando la morfologia di un retro mondo, autonomo, strutturato e organizzato, indipendente da lui, quasi non fosse di sua proprietà o non gli appartenesse, ma che paradossalmente era “suo”, e lui ne era il risultato, il prodotto, l’espressione. Il sipario della sua interiorità si era aperto, e le sue interiora (le viscere), organi protagonisti del nostro sentire, si erano palesate, diventando sterili oggetti di studio.

Un organo pervasivo

Un bambino, il bambino, quel bambino, sono immagini perfette per rappresentare la prospettiva che ci deve muovere nel leggere queste poche righe: un punto di vista nascente che impatta e risponde a un mondo che costantemente innesca reazioni di ogni sorta. Quello che ora ci deve stupire nell’esperienza di questo bambino è appunto la sua reazione, alla quale dobbiamo dare un nome per permetterci di inquadrarla e pensarla: una profusione di sentimento, complesso e confuso sì, ma di sentimento trattasi. Ma sappiamo cos’è un sentimento? Forse le cose ci sarebbero state più chiare se nel libro di scienze ci fosse stato anche il capitolo ‘anatomia del sentimento’, suonerebbe anche bene. Jung, psicologo analista, psichiatra e molto altro ancora, uno dei più geniali pensatori del ventesimo secolo, per spiegare l’importanza del sentimento nelle nostre vite lo paragonava a un organo, non fisico ma psichico. Non è difficile immaginare perché usava quest’immagine: la sua importanza è centrale nella gestione della vita dell’individuo, permettendogli di allacciare l’esperienza del mondo percepibile a sé, “sente”. La metafora di Jung è tuttora azzeccata: Damasio, neuroscienziato di fama mondiale e alfiere degli studi sul sentimento, un secolo dopo situa il sentimento concretamente nel corpo, non esclusivamente e riduttivamente in testa, nel cervello, nella mente. Lo definisce un ibrido basato su processi neurali e corporei, metabolici, nato per trasmettere al soggetto che lo detiene una valutazione dello stato di benessere del proprio corpo attraverso la produzione di immagini mentali. Lo scopo della sua origine ed esistenza è monitorare l’omeostasi del corpo, facendosi rappresentante e messaggero di un disequilibrio del suo stato per quanto concerne la sopravvivenza. La fame, la sete, una fitta, un movimento intestinale: il mondo delle viscere è centrale nella generazione dei sentimenti, e non ci dovrebbe stupire che la parete intestinale ha una rete nervosa così vasta e complessa da venire addirittura chiamata “secondo cervello”. Il corpo grida in questo modo la sua appartenenza a noi e ci richiama, a volte sottovoce, altre urlando, oppure muto ci stupisce per la sua non presenza.

Ad ogni azione la sua reazione

Ora è importante non confondere il significato del sentimento con quello tipico nel linguaggio comune di emozione, che è una risposta fisiologica a un evento, o, per dirla alla Damasio, un “programma d’azione” che ci invade e determina. È un accadimento fisico che nell’esatto istante in cui “sale alla mente” e afferra la coscienza, diventa personale, ammettendo un sentimento che richiama la sua appartenenza a noi. Sentiamo il nostro corpo e il mondo, con cui quotidianamente entriamo in contatto, innesca una serie di reazioni e controreazioni fisiche che possiamo sentire e mettere in relazione a noi stessi. Il sentimento è nel corpo e contemporaneamente ci astrae dal corpo, perché ci mette in rapporto con esso: è relazionale. Possiamo pensare al sentimento che intende Damasio – e lui stesso lo immagina così – come a un’“orchestra” composta da contenuti e relazioni tra i dati degli organi sensoriali, degli stati viscerali e del sistema nervoso, che, insieme, attraverso un continuo balza e rimbalza, feeedback e controfeedback, danno alla luce tutti quei variegati stati d’animo che hanno attraversato non solo la mente (sarebbe riduttivo), ma il corpo del bambino della nostra storia: sconcerto, imbarazzo, fastidio, ribrezzo, esaltazione. Ma questi sono solo nomi di sentimenti, alcuni si differenzieranno e altri spariranno diventando reliquie, nomi di un tempo che fu. Sicuramente cambieranno, a dipendenza del contesto culturale che loro stessi contribuiranno a creare, e con l’ipervelocità del nostro secolo non tarderemo ad accorgercene.

Ancora Jung, che qui dobbiamo semplificare per esigenze di spazi e per comodità: quando un contenuto attira il sentimento è passivo (un colpo di fulmine, un film horror), il soggetto (io, tu, voi eccetera) è costretto giocoforza a partecipare a ciò che gli sta accadendo, è coinvolto e intrattenuto, afferrato; quando invece il sentimento è un atto attivo, esso impartisce un valore personale a quanto gli sta accadendo (sono sereno, provo ribrezzo, piacere), giudica (bello-brutto, buono-cattivo, bene-male) seguendo la propria scala di valori, figlia dell’incontro tra le proprie disposizioni individuali e lo spirito del tempo, che, ricordiamoci, ormai muta velocemente. La metafora “organo” acquista ancora più senso: il sentimento è una “funzione” indirizzata, razionale e logica, che determina un orientamento, opera e agisce. Il risultato è che il sentimento è sia contenuto che contenitore, sia significato che significante. Il suo affinamento e raffinamento è una necessità del nostro tempo, soprattutto se pensiamo a quanto l’era della tecnica inserisce l’homo sapiens, un animale, in una fitta rete di impressioni ed elicitazioni che può facilmente sovrastimolarlo e confonderlo.

Il flusso del sentimento

Colgo la palla al balzo, ecco un’altra logica del sentimento che ho accennato poco sopra: esso parte da una predominanza di sensazioni ed emozioni per staccarsi da esse e astrarsi. Cosa significa? Prendiamo, ad esempio, l’innamoramento. È un sentimento complesso, oltremodo coinvolgente, che comporta un principio di fusione con l’altro, con il quale ci identifichiamo. Entriamo così tanto in rapporto che la relazione ci soverchia, sovradeterminandoci, sopraffacendoci: l’Io, che qui intendo come una rappresentazione stabile e duratura di noi nel tempo, smarrisce il suo sentiero. L’innamoramento è passivo, accade e basta, per dirlo alla Hillman è un “sentimento emotivo”. Dire “io amo” è invece un atto attivo, razionale, è un discernimento del contenuto che lo innesca e una presa di posizione. Ora prendiamo questi due aspetti e osserviamo il loro rapporto con noi: prima il coinvolgimento è totale, potremmo immaginarlo quasi come fisico, corporeo, successivamente si trasferisce, cambia ubicazione, dal “corpo” passa “al corpo e nella mente” per finire “in mente”. Diventa mentale! “Ora so cosa mi sta accadendo, cosa provo”. Il sentimento si differenzia dal suo oggetto e svolge la sua funzione: mi permette di comprendere che l’esperienza sta accadendo a me facendola diventare personale, inserendola nel pensiero e aiutandomi nella valutazione di ciò che mi accade.

L’animale homo sapiens scopre così l’uso della mente e con essa l’astrazione, che è una “specializzazione tecnica”, come intende Gehlen, della nostra propensione ad attribuire significati, dunque di porci in relazione alle cose (inerenti o meno a noi) attraverso la funzione di valutazione del sentimento, usata successivamente dal pensiero per comprendere il mondo. La domanda che si pone adesso quel bambino, una volta che ha sfogliato con avidità di sapere il capitolo che non esiste “anatomia del sentimento”, è la seguente: se sono sovraeccitato, sovrastimolato, accerchiato e attorniato da informazioni, immagini, esperienze, racconti, pareri, opinioni eccetera; non corro il rischio di andare in “overflow” di sentimento (in matematica è un risultato che supera i limiti di capacità di una memoria), ovvero in eccedenza? Riesco ancora a valutare ciò che sento? E, ancora più importante: riesco ancora a sentire, a connettermi alla sorgente, ad agganciare le esperienze a me rendendole personali, dunque ad avere una intima esperienza di chi sono, del mio corpo che recepisce? L’animale homo sapiens può ancora prendere posizione rispetto al mondo? Se lo chiedesse a me risponderei di sì, sottolineando l’enorme dispensa di possibilità racchiuse in questa sovrastimolazione, ma farei fatica a fare finta di nulla di fronte al disorientamento che può provocare. Il sentimento può effettivamente perdere il direttore dell’orchestra di cui parlavamo qualche riga più in su, ritirarsi perché esausto e impotente, incapace di differenziare i propri contenuti e i valori ivi associati, cadendo, anzi, regredendo nell’animalità se non proprio nella bestialità e nell’infantilismo. Oppure può dissociarsi dal mondo, desensibilizzato e ormai immune ai contenuti di un’alterità che vende sé stessa come uno spettacolo teatrale di serie b, da guardare con popcorn e fazzoletti per le lacrime, incredibile e contemporaneamente non più credibile.

Forse vale la pena educare quel bambino al sentimento, non si sa mai.

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