L'analisi

Theresa May e l’uscita sbagliata

Agli errori della premier sulla Brexit si sommano la sventatezza di Boris Johnson e il machiavellismo di Corbyn.

Keystone
16 gennaio 2019
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Si è infilata in un vicolo cieco e non ne esce. D’altronde, dopo avere ereditato la Brexit dal suo predecessore David Cameron, Theresa May non ne ha azzeccata una.

Prima, nel giugno 2017, ha deciso di tornare alle urne nella speranza di consolidare la sua maggioranza in vista dell’addio al Continente: e invece ha perso il vantaggio assoluto e si è ritrovata costretta ad allearsi con gli Unionisti nordirlandesi, protestanti ultranazionalisti che poi hanno piantato grane infinite sul ‘backstop’, ovvero la clausola che norma le relazioni doganali con l’Ue nel caso qualcosa dovesse andare storto durante la fase di transizione. Poi, senza nulla in mano e senza mettersi d’accordo sulle strategie col suo partito e col parlamento, ha attivato l’Articolo 50, facendo scattare il timer per l’uscita dall’Ue entro il prossimo 29 marzo. Infine se ne è andata a negoziare sola soletta, minacciata alle spalle dal fuoco amico di Westminster e dei Brexiteers duri e puri, fronteggiando un’Europa già parecchio incarognita. Una posizione troppo fragile perché la sua iniziale tracotanza – “meglio nessun accordo di un cattivo accordo”, diceva nel 2017 – potesse davvero intimidire qualcuno. Il risultato è stato un estenuante pendolarismo fra Londra e Bruxelles, coronato dalla crisi di oggi.

Però non è neppure giusto addossare tutte le colpe di quest’impasse alla povera May. C’entrano anche le manie di protagonismo degli oltranzisti à la Boris Johnson, più interessati alle rispettive carriere che al destino della nazione. Il loro avventurismo è lo stesso dei pifferai che avevano promesso al popolo un’uscita facile e un radioso futuro.

Vi si aggiunga il pavido machiavellismo dell’euroscettico Jeremy Corbyn: all’inizio è rimasto a guardare la campagna referendaria dagli spalti, sostenendo in modo assai tiepido il ‘Remain’; in seguito ha capricciosamente vagheggiato una Brexit con “gli stessi identici benefici” della permanenza nel mercato comune, pur sapendo che l’Ue non si lascerà mai umiliare a tal punto. Ora il leader laburista cerca di smarcarsi dalla sua base, che chiede un secondo referendum, e si impunta sulla sfiducia – ne sapremo di più oggi – e sulle elezioni anticipate. Una prospettiva ancora improbabile, e che comunque non sbloccherebbe un bel nulla: un nuovo governo si troverebbe di fronte lo stesso nodo di interessi, paure e incertezze che sta strozzando May. L’impressione è che in realtà Corbyn aspetti un’uscita disastrosa per poi accreditarsi come salvatore della patria. Vedi alla voce: giocare col fuoco.

In tutto questo caos, per una volta, è l’Ue ad apparire rafforzata: i suoi rappresentanti hanno utilizzato con lungimiranza e determinazione tanto i bastoni quanto le carote, dando un’insolita dimostrazione di unità strategica. Ma se la paralisi di Londra dovesse risultare in un’uscita senza accordo, alla fine non si conterebbe alcun vincitore.

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