Estero

Tutti i 'no' di Theresa May mentre Brexit si fa incubo

Nulla di fatto in Gran Bretagna dove permane lo stallo sull'accordo da trovare con la Ue: resta come una minaccia la data della Brexit, il prossimo 29 marzo

21 gennaio 2019
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Un piano B sulla Brexit non si vede e forse non c'è. Almeno per ora, mentre il giorno X dell'addio di Londra all'Ue resta fissato, sempre più incombente, per il 29 marzo.

La conferma è risuonata in tutta la sua evidenza nelle parole del discorso con cui la premier britannica Theresa May ha avviato lunedì sera il dibattito sulle linee d'un nuovo ipotetico accordo da sottoporre a Bruxelles dopo la bocciatura senz'appello, la settimana scorsa da parte del Parlamento di Westminster, di quello raggiunto con i 27 a novembre.

Un discorso nel quale l'unica vera novità concreta, accolta da un raro moto di unanimità dei deputati, è stato l'annuncio della premier Tory dell'abolizione del previsto costo da 65 sterline per le pratiche che 3 milioni di cittadini di Paesi Ue insediati nel Regno dovranno espletare per ottenere lo status speciale in grado d'assicurare loro gli stessi diritti di oggi: anche in caso di "no deal” (nessun accordo), come è stato promesso e ribadito.

A un passo dalla catastrofe

Un segnale importante ma che non dice nulla sulla strada che il governo di Sua Maestà vuole o può imboccare entro il 29 marzo per uscire dallo stallo. Salvo scivolare per inerzia verso l'orizzonte di quel divorzio senz'accordo che mezzo mondo teme come una potenziale catastrofe per le relazioni europee, per i legami che le regolano e soprattutto per l'economia britannica.

May in ogni modo non pare scuotersi più di tanto. Ai deputati parla di dialogo in termini vaghi e limitati. Promettendo un maggiore coinvolgimento del Parlamento nella definizione di un quadro nuovo, l'impegno a tutelare i diritti attuali su lavoro, ambiente e sanità secondo gli standard europei e – in primis – una imprecisata soluzione che consenta di mantenere un confine senza barriere fra Irlanda e Irlanda del Nord; allontanando nel contempo lo scenario teorico del backstop (il contestato meccanismo di salvaguardia imposto dall'Ue) senza mettere in discussione lo storico Accordo di pace del Venerdì Santo del 1998.

No, no, no

Poca cosa per le opposizioni, compatte nel bocciare la linea della May. Tanto più che la premier non cede su una raffica di no: no alla rinuncia ad agitare lo spauracchio del "no deal”; no alla richiesta di un'estensione dell'articolo 50 e quindi d'un rinvio della Brexit almeno finché una nuova bozza d'accordo allargato non sarà sul tavolo a Westminster; no alla proposta ufficiale laburista di un testo d'intesa più soft che contempli se non altro la permanenza della Gran Bretagna nell'unione doganale; e no, ovviamente, agli appelli dei pro-Remain più convinti per un secondo referendum che ai suoi occhi sarebbe "un tradimento" del risultato referendario del 2016.

Il leader del Labour, Jeremy Corbyn replica rinfacciandole di continuare a "negare la realtà". Non senza ironizzare sulle "concessioni" che May afferma di voler ottenere dall'Ue sul backstop (dove intanto la proposta solitaria di Varsavia di limitarne a 5 anni il periodo di ipotetica attuazione viene gelata a stretto giro da Dublino e dal capo negoziatore Michel Barnier), domandandosi in cosa siano diverse dalle "rassicurazioni legalmente vincolanti" implorate invano negli ultimi mesi.

Alla fine l'unica reazione cautamente positiva arriva da falchi Tory brexiteer come Boris Johnson e dai coriacei alleati unionisti nordirlandesi del Dup: condizionata del resto al risultato che la premier potrà spuntare sul backstop "tornando a Bruxelles". Mentre il fronte anti-May si prepara in tutta fretta a mettere ai voti nuove mozioni per provare a obbligare di fatto l'esecutivo alla strategia del rinvio se un compromesso non dovesse saltar fuori per miracolo entro il 26 febbraio. E scongiurare l'incubo del “no deal”.

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