Commento

C’era una volta il servizio pubblico

La profezia della No Billag si sta avverando al contrario, con i cali pubblicati che vanno verso una Ssr finanziata dal solo canone

Archivio Ti-Press
7 ottobre 2020
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Non sono neanche passati tre anni, dalla votazione per l’abolizione del canone radiotelevisivo; eppure tutti i dibattiti e le discussioni che hanno preceduto il voto sembrano appartenere a un’altra epoca. Si discuteva, lo si ricorderà, della possibilità di avere radio e tv finanziate unicamente “dal mercato”, senza quei proventi del canone che sostengono non solo la Ssr ma anche le emittenti private. Adesso il vero interrogativo sembra essere se potremo avere un servizio pubblico radiotelevisivo che si regge unicamente sul canone, senza gli introiti pubblicitari che si riducono sempre più. Gli annunci di riduzioni di budget e organico – 8 milioni e 34 posti resi noti ieri che si aggiungono ai tagli di febbraio – stanno diventando un appuntamento ricorrente, persino più sicuro di un palinsesto che la rivoluzione digitale rende sempre più fluido.

Già, la rivoluzione digitale, le “nuove” – virgolette d’obbligo, ormai parliamo di tecnologie in circolazione da almeno un decennio – abitudini di consumo mediatico: certo sui conti pesa la crisi economica innescata dalla pandemia e dalle misure sanitarie, ma dire “è colpa del Covid” sarebbe semplicistico. Il mondo sta cambiando, anzi è già cambiato e da una parte possiamo usufruire di un’offerta mediatica semplicemente impensabile fino a non molto tempo fa, con centinaia di canali e quotidiani di tutto il mondo facilmente accessibili; dall’altra vediamo un sistema mediatico, e soprattutto pubblicitario, dominato da grandi attori internazionali poco interessati alle specificità di un territorio piccolo come la Svizzera – figuriamoci la Svizzera italiana. La sfida non è solo far fronte a un calo della pubblicità che si sposta su altri fronti più redditizi – grazie anche a pratiche di profilazione degli utenti discutibili, ma questo è un altro discorso –, ma anche raggiungere un pubblico che non ha o non ha più l’abitudine di sedersi davanti al televisore o di accendere la radio.

Le preoccupazioni per l’impatto delle misure di risparmio, gli interrogativi su quanto sarà possibile tagliare ancora senza compromettere significativamente la qualità dell’offerta, i possibili correttivi a livello pubblicitario vanno preceduti da una domanda molto semplice: che tipo di servizio pubblico vogliamo? La domanda è semplice; la risposta ovviamente molto meno, volendo evitare risposte generiche come “di qualità” e “vicina al territorio”, parole vuote con cui forse si può costruire una campagna di marketing, non creare un’offerta mediatica. Qual è il senso di una programmazione generalista in un mondo con un’offerta sempre più ampia e settoriale? Quali possono essere, se ci sono, i punti di forza di un attore mediatico che si sottrae almeno in parte ai ragionamenti di mercato? In un mondo sempre più polarizzato, ha senso inseguire l’ideale di un’informazione neutrale e obiettiva?

Provare a rispondere nello spazio di un editoriale è esercizio poco utile; ma delle risposte, condivise, andranno trovate al più presto.

Possiamo immaginare un futuro non troppo lontano con un servizio pubblico essenziale, sussidiario a un’offerta mediatica globale standardizzata: è il futuro che vogliamo?

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