Commento

Il Covid-19 e il sisma nella sanità

Il sistema sanitario mondiale ha mostrato tutte le sue insufficienze strutturali che penalizzano i paesi poveri e favoriscono quelli ricchi

foto keystone

Non poteva di certo chiamarsi fuori dagli effetti sismici della pandemia. Il sistema sanitario mondiale ha mostrato tutte le sue insufficienze strutturali. Che penalizzano i Paesi poveri, favoriscono quelli più ricchi e mettono in pericolo ovunque la sovranità sanitaria delle nazioni. Nel libero mercato mondiale di medici e personale infermieristico, più che una mano invisibile, a regolare i flussi ci pensano gli interessi egoistici degli Stati e la sperequazione dei redditi. Medici indiani, pachistani o iracheni che emigrano in massa nel Regno Unito, dottori maghrebini formati in Marocco o Algeria che esercitano in Francia, polacchi, ungheresi o rumeni che aprono i loro studi in Germania, mentre un’ondata di medici tedeschi è arrivata nell’ultimo decennio in Svizzera attratta da redditi ben maggiori. Secondo la Federazione Svizzera dei Medici (FMH) la percentuale di dottori stranieri supera il 30%. La colossale tosatura di personale medico a danno dei Paesi più poveri è in molti casi impietosa: più della metà dei medici somali o dello Zimbabwe esercita oggi all’estero. Il Dr. Franco Cavalli, in trincea nella battaglia per riequilibrare le plateali storture nel nostro sistema, punta il dito contro il numerus clausus che impone allo studente stravaganti esami ghigliottina “multichoice” i quali mirano unicamente a limitare il numero dei medici formati da noi. Sì perché, secondo i dati che ci fornisce l’oncologo, uno studente in medicina costa tra i 750mila e 1 milione di franchi. Che nel sistema universitario svizzero sono in gran parte a carico dei Cantoni. I 200 milioni di aiuti sbloccati dalla Confederazione (in questo contesto si inserisce la nuova facoltà di biomedicina che aprirà in settembre all’Usi) non basteranno di certo. Ogni anno dalle nostre università escono 1’200 medici, ma è una cifra doppia quella che fotografa i bisogni reali. Importare personale dall’estero, Germania, Italia o Francia, consente di colmare il gap a costo zero. Non molto diversa la situazione sul fronte del personale infermieristico: il tasso di stranieri supera il 50% nell’arco lemanico, mentre in Ticino tra cliniche, ospedali, case per anziani si raggiunge circa il 40%. Un’iniziativa popolare, già oggetto di un controprogetto al Consiglio nazionale e che sarà fra poco sul banco degli Stati, mira ad aumentare finanziamenti, aumentare gli stipendi, imporre un CCL e con un’ordinanza un numero minimo di infermiere nei diversi reparti. Che alla base di queste richieste vi siano anche personalità conservatrici, come il consigliere nazionale bernese Udc Rudolf Joder la dice lunga sull’urgenza di una riforma radicale. Bisogna correre ai ripari: entro il 2030 in Svizzera mancheranno, stando a uno studio, ben 30mila infermiere e infermieri. La teoria della domanda indotta, in voga negli anni 90, mostra oggi tutti i suoi limiti: si pensava che contingentando il numero di medici si sarebbe contenuto anche il consumo di medicina da parte dei pazienti, riducendo di riflesso i costi. Ipotesi che non aveva fatto i conti con l’invecchiamento della popolazione o l’aumento delle malattie croniche. La pandemia ci ricorda quanto settori chiave della società, dall’educazione alla sanità, non debbano essere lasciati in balia di quei principi economici e ideologici, quelli del libero mercato, che possono semmai funzionare e pure creare ricchezza in altri ambiti dell’economia.

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