Commento

Richard Jewell e tre delle forze più potenti del mondo

Il film di Clint Eastwood ci racconta di un uomo ingiustamente accusato dall'Fbi e condannato dai media di terrorismo. Un monito per tutti noi

Paul Walter Hauser in una scena di 'Richard Jewell' (© Warner Bros)
16 gennaio 2020
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“Il mio cliente è accusato da due delle forze più potenti del mondo: il governo degli Stati Uniti e i media”. È con queste parole, pronunciate dall’avvocato Watson Bryant, che si apre una delle scene più forti di ‘Richard Jewell’: la testimonianza della madre di Jewell, interpretata da una eccezionale Kathy Bates. Il film di Clint Eastwood racconta la storia dell’uomo sospettato dall’Fbi e accusato da giornali e televisioni di aver piazzato una bomba al Centennial Park di Atlanta, dove durante le Olimpiadi lavorava come guardia di sicurezza. Fu Jewell a scoprire l’ordigno, salvando di fatto molte vite, ma da eroe divenne subito mostro, quando trapelò la notizia che le autorità stavano indagando su di lui. Indagini che, passate dal segreto istruttorio a quotidiani e notiziari, sono diventate una condanna di colpevolezza. Richard Jewell non venne mai formalmente accusato – non c’erano prove, e non potevano esserci dal momento che il vero attentatore era l’estremista cristiano Eric Rudolph, identificato solo dopo altre bombe e altri morti –, ma per tre mesi venne interrogato e intercettato, la sua casa perquisita dalle autorità e assediata dai giornalisti ansiosi di filmare e fotografare il mostro.
Un calvario che Eastwood, con qualche licenza narrativa, ricostruisce come solo lui sa fare, portando su schermo una lucida denuncia contro quegli abusi che possono distruggere la vita di una persona innocente. Un ammonimento importante, soprattutto in un’epoca in cui in molti ripongono piena e cieca fiducia nel potere statale, e spiace – non solo per la qualità del film – che negli Stati Uniti ‘Richard Jewell’ sia sostanzialmente un flop al botteghino. Ma il film ricorda anche le responsabilità dei media, ed ecco che diventa interessante andare a leggere quello che il film non racconta: per riabilitare il proprio nome, Jewell denunciò le testate che lo avevano dipinto come una persona instabile sostenendo vi fossero prove convincenti contro di lui. Ottenne vari risarcimenti, anche se perse la causa contro il quotidiano che rivelando i sospetti dell’Fbi diede inizio al tutto: quello che riferì il giornale era vero e non si poteva sapere che le indagini erano sostanzialmente infondate. Rimane il fatto che per dei semplici e non confermati sospetti la vita personale e professionale di Richard Jewell venne stravolta, e questo perché i media in cerca di sensazionalismo invece di mantenere un atteggiamento critico verso l’operato delle autorità hanno semplicemente fatto da cassa di risonanza.
La bomba al Centennial Park esplose il 27 luglio del 1996: non c’era stato ancora l’11 settembre, il che spiega l’assenza di controlli per accedere all’area. Soprattutto, non c’erano ancora i social media che oggi avrebbero certamente contribuito al cappio mediatico cui Jewell fu appeso, probabilmente senza neanche bisogno di un’indagine dell’Fbi dalla quale partire, come dimostrano le teorie del complotto che spontaneamente fioriscono dopo ogni tragedia. E qui si cela una lezione ancora più importante, per i media tradizionali: se perdere quell’atteggiamento critico verso le autorità investigative fu un errore che cambiò per sempre la vita di un innocente, altrettanto grave sarebbe appiattirsi, per qualche clic in più, agli umori degli utenti dei social media.

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