Società

I media fuori dal ghetto Lgbt

Pubblicità e serie tv costruiscono il nostro immaginario collettivo, includendo sempre più omosessualità e transessualità, spiega Francesca Vecchioni fondatrice di DIversity

29 maggio 2018
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E la settimana del Pride ha avuto inizio: fino alla festosa parata che animerà il lungolago di Lugano sabato pomeriggio, avremo incontri, spettacoli, film, brunch e altro ancora. Perché la parola d’ordine della grande manifestazione per i diritti Lgbt – sigla che, meglio ricordarlo, sta per “Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender” –, più che l’orgoglio che dà il nome all’evento, è la reciproca comprensione: coinvolgere, includere tutti (o tutt*, come con sfregio grammaticale talvolta si dà giustamente conto della diversità che ci circonda).

È una questione culturale, non unicamnte di diritti civili: l’inclusione passa non solo dalle leggi, ma anche dall’immaginario collettivo, da quel mondo fatto di libri, giornali, film, serie tv, trasmissioni radio, pubblicità. Il mondo della comunicazione di massa del quale – giovedì alle 20 nel patio di Palazzo civico a Lugano – parlerà Francesca Vecchioni, ospite di una speciale serata di Poestate (www.poestate.ch) dedicata al Pride. Autrice di ‘T’innamorerai senza pensare’ – libro il cui titolo che riprende una frase della canzone ‘Figlia’ del padre Roberto e nel quale racconta la propria esperienza di madre lesbica con tanto di conclusivo “manuale di sopravvivenza per eterosessuali” – Francesca Vecchioni ha fondato l’associazione Diversity nata nel 2013 «per creare una cultura dell’inclusione attraverso la comunicazione, attraverso quelle espressioni che incidono sull’immaginario collettivo»; un lavoro specifico che, ha aggiungo, «non veniva svolto da altre realtà attive sul fronte dei diritti».

Osservando, e premiando, i media

Che cosa fa in concreto Diversity? «Fa cultura, cerca di trasmettere, di diffondere in maniera pop determinati temi» ha spiegato Francesca Vecchioni subito citando quello che in un certo modo è l’apice dell’associazione, il Diversity Media Award «che si è appena tenuto e che non si limita a premiare alcuni personaggi e prodotti televisivi, cinematografici o radiofonici, ma racconta che si può usare un linguaggio positivo in grado di migliorare la nostra società, che si può evitare di usare parole d’odio, che si può e si deve essere responsabili di ciò che si mostra».

La cerimonia di premiazione si è da poco tenuta a Milano e ha visto tra i vincitori Roberto Saviano quale personaggio dell’anno e le serie tv ‘Tredici’, ‘Sense8’ e ‘Amore pensaci tu’ ma la parte più interessante è probabilmente quella “dietro le quinte”. Il progetto, ha infatti spiegato Francesca Vecchioni, coinvolge numerosi enti istituzionali, come la Commissione europea o il Comune di Milano, e accademici come università e il famoso Osservatorio di Pavia sui media. Dietro gli ‘Awards’ c’è il Diversity Media Watch che «raccoglie i dati e analizza, con un criterio di valutazione per l’intrattenimento e uno per l’informazione, tutti i prodotti realizzati nell’anno», dai principali telegiornali italiani a quasi ottocento tra pubblicità, film e serie tv.

Fuori dal ghetto

Per quanto riguarda il mondo dell’informazione, la presenza Lgbt è dominata dalla cronaca nera, ma con un importante distinguo: “I casi specifici di discriminazione omofobica o transfobica, anche di natura violenta, continuano a ricevere un’attenzione limitata” si legge nel rapporto dell’osservatorio, mentre grande attenzione viene riservata a crimini violenti in cui persone Lgbt sono incidentalmente coinvolte. Si registrano comunque notizie positive come quelle di politici europei dichiaratamente omosessuali come i premier di Irlanda e Lussemburgo.

Più interessante la questione intrattenimento, con i temi Lgbt presenti «non più solo in film e serie tv specificatamente dedicati al tema, ma anche in altre situazioni in cui non te l’aspetteresti, esattamente come avviene nella realtà». È una normalizzazione, una “sghettizzazione” dei temi che vengono sempre più affrontati – soprattutto, ma non solo, nelle serie tv straniere – evitando luoghi comuni e cliché.

Per la valutazione Diversity utilizza il cosiddetto “test di Vito Russo”, ideato dalla Gay & Lesbian Alliance Against Defamation. Ispirato al Bechdel test sui ruoli femminili, per superare il test Vito Russo un film deve avere almeno un personaggio chiaramente omosessuale, bisessuale o transgender – e se pensiamo alle decine di personaggi che si avvicendano in una moderna serie tv, è statisticamente realistico che almeno uno sia Lgbt – ma non solo: non deve essere esclusivamente definito dal proprio orientamento sessuale o dalla propria identità di genere e deve svolgere un ruolo attivo nella storia. Insomma, niente macchiette messe così, giusto per fare qualche battuta sagace o, peggio ancora, per far ridere il pubblico solo con la loro presenza come accadeva fino a non molto tempo fa.

Un aspetto, questo, sul quale Francesca Vecchioni ha insistito: più che una rappresentazione decente, si tratta di avere una rappresentazione autentica della ricchezza delle persone: la diversità è una delle tante caratteristiche di un individuo, non il suo unico tratto distintivo.

La ricchezza dell’inclusione

Diversity non è unicamente attiva nell’analisi e nella valutazione di quello che esce. Capita anzi di venire interpellata prima della realizzazione di un prodotto: «Medusa e Colorado film ci hanno chiamato per sistemare tutto il copione di ‘Puoi baciare lo sposo’, film di Alessandro Genovesi uscito da poco nelle sale» ha spiegato Francesca Vecchioni.

Tutto questo senza dimenticare che «anche le aziende, i grandi marchi fanno cultura, creano il nostro immaginario collettivo», e non solo tramite la pubblicità. Per questo a fianco dei Diversity Media Awards troviamo i Diversity Brand Awards, per far capire «quanto è importante per chi investe essere realmente inclusivi, il che significa non solo non discriminare al momento dell’assunzione, ma anche comunicare l’inclusione, parlare alle persone senza escluderle e questo vale non solo per genere e orientamento sessuale, ma anche per l’età o le disabilità». La sfida, conclude Francesca Vecchioni, «è far capire la ricchezza, anche economica, che porta l’inclusione».

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