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Tempo di ‘Alienation’, i Rockets che non c’erano

Registrato tra il 1980 e il 1981, doveva essere il seguito di ‘Galaxy’, ma per 40 anni è stato l’album fantasma. Ora esiste: ce ne parla Fabrice Quagliotti

'Messaggio per voi dalla razza robotica: ascoltate i Rockets, predicate la nostra causa'

Registrato tra il 1980 e il 1981, doveva essere il seguito di ‘Galaxy’, ma per 40 anni è stato l’album fantasma. Ora esiste: ce ne parla Fabrice Quagliotti

4 ottobre 2021
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Lo chiamavano space rock. Anzi, lo chiamano. L’Enciclopedia digitale lo divide in due: da una parte, il “sottogenere del rock progressivo caratterizzato da sonorità e testi che suggeriscono atmosfere fantascientifiche”, collocabile all’inizio degli anni ’70 e per il quale si citano i Pink Floyd (che si citano un po’ dappertutto), i Gong, nati da una costola dei progressivi Soft Machine, ma anche i britannici e seminali Hawkind e i più metallari UFO, per i quali, sul fatto che si trattasse di space rock, non è il caso di porsi domande. Dall’altra parte dello space rock stanno tutti quei i gruppi, ma anche quei solisti e quelle soliste (vedi poco sotto) che ereditarono i mondi fantascientifici di cui sopra andando verso la disco music, con risultati di vario ed eventuale successo. Detto ciò, dato ai Pink Floyd quel che è dei Pink Floyd, agli UFO quel che è degli UFO e a Isaac Asimov quel che è di Isaac Asimov, esistono al mondo, ma principalmente in Italia e in Russia, categorie di persone alle quali tutto quanto appena scritto suona terribilmente irrilevante. Perché nulla è stato più come prima da quando sulla Terra, provenienti da un punto non esattamente identificato dello spazio profondo (qualcuno scrive “della provincia francese”, noi preferiamo “dello spazio profondo”) sono atterrati i Rockets.

L’uomo meteora e l’amante automatico

Nel 1978, un anno prima che a cantare di spazio fossero Sheila & B. Devotion con ‘Spacer’ (scritta dagli Chic, prodotta da Nile Rodgers), nelle classifiche italiane imperversava la space girl Dee D. Jackson con ‘Automatic Lover’ prima, con ‘Meteor Man’ poi. L’odierno #MeToo avrebbe da ridire sul cantare delle voglie represse di una giovane in un futuro distopico in cui “l’amore è morto”, non c’è più “nulla da accarezzare” se non un robot “programmato per ricevere soddisfazione automatica”. Da cui un appello disperato e difficilmente raccoglibile (dal robot): “See me, feel me, hear me, love me, touch me”, desiderio di contatto che strizza l’occhio e gli altri sensi a ‘Tommy’, il giovane protagonista dell’omonima opera rock degli Who, nato cieco, muto e sordo ma diventato un mago del flipper. Il #MeToo nemmeno manderebbe giù “l’uomo meteora”, che “se ne andò così com’era arrivato”, lasciando lei “con il fuoco negli occhi” perché nella sua anima, nell’anima dell’uomo-meteora, “non c’era amore” (uno space-testo, o semplicemente l’allegoria dello sciupafemmine).

Va da sé che nel 1978, né la bellezza algida ma comunque spaziale di Dee D. Jackson (Deidre Elain Cozier, nata a Oxford, residente a Caserta), né il suo album intitolato ‘Cosmic Curves’ (Curve cosmiche) bastarono ad arrestare l’invasione aliena dei Rockets, cinque francesi con le facce dipinte d’argento e splendidi abiti degni di Spazio 1999, che al suono della cover ‘On The Road Again’, brano dei Canned Heat dilatato a dismisura per farci sopra balli spaziali, si spianavano la strada a colpi di elettronica, vocoder, chitarre, ritmica pompante e immagine vincente, frutto del lavoro di fior di musicisti che chiamarla disco music sarebbe una bestemmia.

C’era una volta il casco

Nella Parigi sessantottina, fermenti musicali di gruppi dai nomi più disparati portano ai Crystal, brodo primordiale dei Rockets. Nell’inverno del 1973, col quartier generale fissato in una villa di Vincelles, cittadina della Marna, i Crystal incontrano il produttore Claude Lemoine, che la storia ricorda anche per il tormentone ‘Dur dur d’être bébé’ cantato dal figlio Jordy; Lemoine è intenzionato a creare un un combo tra gli svedesi Spotnicks e i britannici Shadows, quelli di Cliff Richard. Già nel 1974, i Crystal si fanno fotografare coi crani pelati e dipinti d’argento, per quella che sarà la copertina di ‘Future Woman’.

Diventati Les Rockets nel 1975, e pubblicato un primo eponimo album nel 1976, a Christian Le Bartz (voce), ‘Little’ Gérard L‘Her (voce, basso), Alain Maratrat (chitarra, tastiere, voce) e Alain Groetzinger (batteria e percussioni) serve un sostituto per il partente tastierista Louis-François Bertin-Hugault più brevemente detto ’Loulou’, fattosi notare per un casco da motociclista che una ventina d’anni più tardi diventerà segno distintivo di altri francesi della musica; Fabrice Quagliotti risponde all’annuncio nella bacheca di Music Power, negozio di strumenti musicali di Pigalle, e il quintetto è pronto per registrare il secondo album per l’italiana Cgd.

“Message to you from the robotic race: hear the Rockets, preach our case”

Nell’aprile del 1978 esce l’album ‘On the road again’, disco d’oro; crescono i concerti, si affina la macchina da spettacolo con fumi, lanciafiamme e raggi laser (“Una volta il raggio laser ha ucciso uno sotto il palco” e “Al cantante la vernice argento gli ha fatto venire il cancro alla pelle” sono due meravigliose leggende metropolitane degne di “mi ha detto mio cuggino che da bambino una volta è morto”); dagli studi della Decca di Parigi arrivano Plasteroid (maggio 1979), trainato dal singolo ‘Electric Delight’ e, tra settembre e maggio 1980, un ‘Live’ e il concept ‘Galaxy’ con dentro la hit ‘Galactica’, regina dell’estate e di ogni revival come si deve. Per i Rockets è l’apice del successo, è la targa della Cgd che sancisce il milione di dischi venduti da ‘Future Woman’ a ‘Galaxy’, è il momento per entrare in studio e realizzare il nuovo disco. Che non uscirà mai. E che è uscito adesso, quarant’anni dopo.

“Finalmente, dopo 40 anni, è arrivato a casa. Sono commosso. Merci Alain, Alain G, Little, Christian e Claude”

Parte una batteria elettronica («No, non è la Roland TR808, è una Korg Rhythm 55», grazie Quagliotti), parte il riff di elettrica e a ruota un synth che sa di ‘Funky Town’; e sul riff, pedale di basso e fantasia di accordi minori interstellari, decolla finalmente ‘Non-Stop’, traccia uno di ‘Alienation’, l’album dei Rockets che non c’era e adesso c’è, e che se nel 1981 ci fosse stato, sarebbe stato lanciato dalla sua traccia uno. Prodotto da Lemoine, con la copertina di Victor Togliani, scritto dal quintetto di ‘Galaxy’, questo ex ghost album esiste in mille copie numerate in vinile nero, mille in vinile colorato, mille con copertina limitata e cd con libretto di 24 pagine e una versione più lunga dell’ultima traccia, ‘Collage’, l’equivalente di ‘Medley’ alla fine di ‘Galaxy’, un riassunto delle 7 tracce qui condito da estratti di voci umane che arrivano dalle session. Oltre a ‘Non-Stop’, marchio di fabbrica, ‘Alienation’ sorprende per ‘Electromental’, brano avanti di vent’anni, e ‘Ska’red’, i Rockets che duettano con Jimmy X, la cui identità non può essere rivelata ma il totonome è autorizzato (a un autodefinitosi “50enne che ascolta musica per adolescenti brufolosi, sognatori e asociali”, il timbro ricorda “Mick Jones, chitarrista e voce dei Clash e già nei Big Audio Dynamite e collaboratore dei fantomatici Gorillaz. L’ho ascoltato un po’ di volte… è familiare…”).

Con l’arrivo delle prime copie, mostrate in pubblico, Quagliotti scrive su Facebook: “Finalmente, dopo 40 anni, è arrivato a casa. Sono commosso. Merci Alain, Alain G, Little, Christian e Claude”. Il disco “sospeso nel tempo” ora esiste e ‘Non-Stop’, anticipata dal vivo nei primi Ottanta e poi spodestata da ‘Ideomatic’, è tornata al suo posto.

“Ci sono ragazzi di cinquant’anni che sono tornati 15enni, ed è quello che conta”

L’intervista

Fabrice Quagliotti: ‘Essere troppo avanti non fa sempre bene’

Per dovere di cronaca, dopo l’album fantasma i Rockets di dischi ne hanno fatti altri: ‘Atomic’ (1982), l’ultimo da argentati, o ‘Imperception’ (1984), il primo da non argentati e il primo senza il front man Christian Le Bartz, e altro ancora fino a ‘Wonderland’ (2019). Ma non parlate ai Rockets di ‘π 3,14’, che nel 1981 prese il posto di ‘Alienation’ e che per Fabrice Quagliotti, con quale nel 2019 parlammo proprio di ‘Wonderland’, fu il disco della discordia. Ritroviamo Quagliotti il giorno dell’uscita di ‘Alienation’, forte di un album solista scritto e uscito a cavallo del lockdown (‘Parallel Worlds’), ma forte anche dell’aver restituito alla storia le otto tracce chiuse nei cassetti dell’antico produttore Claude Lemoine.

Fabrice, come si arriva ad ‘Alienation’?

«Ho acquistato i master da Claude 15 anni fa, ma con i Rockets stavo ancora facendo dischi nuovi. A cavallo con ‘Wonderland’ ho deciso che era tempo di far rinascere ‘Alienation’, il tassello mancante, quello che doveva essere il proseguimento di ‘Galaxy’, al posto del quale uscì invece ‘π 3,14’. È un disco sospeso nel tempo. Avevamo presentato l’album, ma non c’erano ancora né copertina, né titolo…».

Ma cosa non andava in questo disco?

Ah, vorrei tanto saperlo ancora oggi. Persone che dopo il successo erano convinti di aver fatto tutto loro dissero che non andava bene. Sulla base di cosa non saprei. Ci fu una discussione e il disco non uscì mai. Claude, sbagliando, decise di entrare in studio ugualmente per fare ‘π 3,14’ e noi rispondemmo che avrebbe potuto fare da sé. In quel disco suoniamo in due brani, i nostri, il resto ci rifiutammo di suonarlo. ‘π 3,14’ non è un nostro album, è un’accozzaglia. Il nostro album era ‘Alienation’. Ma in tutti i gruppi ci sono discussioni con le case discografiche, i Rockets non sono un caso unico».

Un vero peccato, era il momento magico…

«Eravamo nel pieno del successo. Con ‘Alienation’ sarebbe uscito un album di transizione, nel quale eravamo sin troppo avanti, dentro c’è dello ska, del punk, ‘Ska-red’, con un cantante londinese di cui non possiamo fare il nome perché ci fu un accordo, ma al tempo era conosciuto e ci si può arrivare da soli (nemmeno contro giuramento di non scrivere si può sapere chi è, ndr). ‘Electromental’ è un’anticipazione di quello che avrebbero fatto i Daft Punk trent’anni dopo. ‘Children of time’ è un brano che fa da collante con Galaxy, e lo stesso vale per ‘Non-stop’. Anche ‘Venus Queen’, che a me sembra più ‘Plasteroid’ che ‘Galaxy’. C’è quella parte di Rockets evoluti che ci avrebbe dovuti portare ad ‘Atomic’. Ma ad ‘Atomic’ ci arrivammo diversamente.

Che lavoro è stato fatto sui master di ‘Alienation’, tecnicamente parlando?

«Quando ho visto le bobine mi sono accorto che c’erano piccoli problemi di umidità. Quest’estate le abbiamo messe in un apposito forno per evitare che il nastro, girando, s’incollasse e tutto il materiale registrato scomparisse. In alcuni punti, grazie a Michele Violante, l’ingegnere del suono col quale lavoro da anni, abbiamo fatto un grosso lavoro di restauro e di mix e mastering. Quando ascolti il disco capisci che è stato registrato negli anni ’80, ma non suona ‘piccolino’ come succedeva al tempo, ma suona attuale, grosso, potente. Sulle batterie, dove c’erano problemi audio, abbiamo triggerato (rendere campionabile il suono di uno strumento, ndr) con suoni d’epoca, passati attraverso i multieffetti che la tecnologia oggi ci mette a disposizione, ma i contenuti sono quelli, intatti.

Anche le citazioni ritmiche di Phili Collins…

Sì, sono volute. Per avere un suono similare, principalmente in ‘Children of time’, spostammo la batteria nel salone di casa di Claude Lemoine, la mettemmo la centro, con i microfoni posizionati in un certo modo, per avere quel suono particolare. Più che un suono ‘alla Phil Collins’, il suo modo di suonare, i lanci, i fill, “ta-tan, ta-tan, ta-tan, ta-tan-tan-tan”, eravamo intrippati dalla batteria di ‘In The Air Tonight’.

Tornando a ‘Electromental’, hai dichiarato che il primo produttore dei Daft Punk frequentava i vostri studi, dunque c’è prova della ‘contaminazione’…

Sì, quando registravamo alla Decca, a Parigi, non dico tutti i giorni, ma almeno una volta alla settimana. Ma i Daft Punk hanno sempre ammesso di essersi ispirati molto ai Rockets. Se guardi le foto di Bertin, il nostro primo tastierista, dal vivo suona con un casco in testa. Sembra una foto dei Daft Punk, ma era il 1976. Diciamo che loro hanno preso più di uno spunto, ma l’hanno preso bene e fatto meglio, e soprattutto sono arrivati al momento giusto. Se ‘Alienation’ fosse uscito nel 2003 avremmo spaccato. Essere troppo avanti non fa sempre bene.

Il fan club vi chiede dove va posizionato ‘Alienation’ sullo scaffale, se per ordine di pubblicazione o per quello che sarebbe dovuto essere l’ordine di pubblicazione.

Assolutamente tra ‘Galaxy’ e ‘Atomic’. Al posto di ‘π 3,14’.

Insomma, di ‘π 3,14’ meno se ne parla…

È l’album della discordia, che ha creato tanto malumore e un po’ ha inciso sulla nostra carriera.

Professionalità, livello di esecuzione altissimo, immagine pazzesca: perché i Rockets non sono esplosi nel mondo?

Credo che a livello d’immagine sarebbe stato il caso di rimanere ai primi costumi, quelli del ‘77. Gli altri sono stati sin troppo ‘da cartoon’ e credo che se a volte non siamo stati presi sul serio si debba proprio a quello. Ma è stato un discorso anche puramente discografico: in Italia e in Russia siamo andati molto forte perché gente come Maurizio Salvadori della Trident ci ha creduto, e suonavamo tanto. I Rockets, per fare successo, dovevano fare tanti concerti, perché non erano solo musica da ascoltare e immagine, ma anche performance live. Forse all’estero è mancata gente che ci credeva. A parte la Francia, che ci ha un po’ snobbato, e fa parte del gioco, sono mancati Stati Uniti, Germania e Inghilterra, e forse saremmo andati in orbita…

L’affetto, comunque, non è mai cambiato...

Lo stesso, identico. Sto leggendo i commenti di chi ha già ricevuto l’album e l’ha ascoltato: a parte quel 3%o per il quale ‘Alienation’ non sono i Rockets, e quando uscì ‘Kaos’ non erano i Rockets, e quando uscì ‘Wonderland’ non erano i Rockets, ma nemmeno quando eravamo i Rockets erano i Rockets, mi emoziona leggere il racconto di tanti, l’emozione che provano nell’attendere un disco, una cosa bellissima. Ci sono ragazzi di cinquant’anni che sono tornati 15enni, ed è quello che conta, che ripaga dall’aver lavorato su questo disco, perché l’ho fatto per i fan, non perché mi porti granché, se non tanta emozione. Devo dire grazie ai fan dei Rockets che ci hanno sempre seguiti, che ci hanno creduto, e non sono pochi.

Solo una curiosità: il tuo costume di scena da Rockets ce l’hai ancora?

No, e non resta granché di quei costumi. Io ne ho regalato uno mio dei tempi di ‘Intersection’ a un fan, ho pensato che non avrebbe avuto senso tenermelo nell’armadio, meglio far felice qualcuno. L’unica cosa cui tengo, in modo maniacale, è la prima tastiera che comprai con i Rockets, un Minimoog del 1977 che suono ancora nei concerti da solista. Spesso ha bisogno del medico, ma ce lo porto sempre volentieri.