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Lo zio di Mahsa Amini condannato a 5 anni di carcere

I giudici: ‘Propaganda contro il sistema’ e insulti al leader Khamenei

Un murale con il volto di Mahsa Amini
(Keystone)
13 febbraio 2024
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"Raccolta di informazioni e collusione contro la sicurezza nazionale", "propaganda contro il sistema", "insulto al leader Ali Khamenei": con queste accuse è stato condannato a cinque anni e quattro mesi di carcere lo zio della tristemente celebre giovane iraniana Mahsa Amini, morta il 16 settembre del 2022 in carcere dopo essere stata arresta perché non indossava l'hijab in modo corretto. Ma non è tutto.

All'uomo, di nome Safa Aeli, sono state inflitte anche delle singolari pene aggiuntive: dovrà infatti scrivere la biografia di un membro dei Basij, le forze paramilitari delle Guardie rivoluzionarie, ucciso durante le proteste, sulle quali gli è stato vietato ora di esprimere qualsiasi opinione.

Pene accessorie

Una volta scontato il carcere non potrà inoltre lasciare l'Iran prima di due anni, sempre in base alla sentenza emessa dal tribunale rivoluzionario di Saqez, la città natale della famiglia, nel Nord-ovest dell'Iran. Attualmente Aeli, 30 anni, è in libertà condizionata dopo che nel settembre scorso era stato già arrestato alla vigilia del primo anniversario della morte di Mahsa, quando le autorità iraniane temevano che potessero riprender vita in grande stile le manifestazioni di protesta in tutto il Paese innescate dalla morte di Mahsa.


Keystone
Proteste contro il regime iraniano in Svizzera tedesca

L'uomo ha passato allora 42 giorni dietro le sbarre e secondo alcune fonti dell'opposizione ha subito anche violenza fisica. Alcuni mesi dopo, Mohammad Saleh-Nikbakht, l'avvocato della famiglia di Mahsa, è stato peraltro a sua volta condannato a un anno di reclusione e ad altre pene complementari dal tribunale rivoluzionario iraniano, con l'accusa di "propaganda contro il sistema per essere stato intervistato dai media dissidenti iraniani".

La morte della ragazza

La morte di Mahsa, 22 anni, secondo molti iraniani causata dalle percosse della polizia, innescò un'ondata di proteste anti-governative in molte città del Paese, andata avanti per diverse settimane, con i manifestanti che continuavano a contestare l'obbligo di indossare il velo in pubblico. In quei giorni si videro molte dimostranti marciare coi capelli al vento, sfidando la legge, o bruciando in pubblico il proprio hijab. La Repubblica islamica ha reagito con una forte repressione, che secondo gruppi per i diritti umani ha causato la morte di centinaia di persone. Da allora le autorità non hanno peraltro fatto alcun passo indietro rispetto all'obbligo del velo, inasprendo anzi le pene per chi non lo rispetta

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