Estero

Mani Pulite, trent’anni dopo. Tra illusioni e cicatrici

Domenica al LongLake c’è Goffredo Buccini del ‘Corriere della Sera’, che ha raccontato quegli anni dal loro epicentro e ora ci ha scritto un ottimo memoir

Volti di un’epoca: i magistrati Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo con Ilda Boccassini e Francesco Saverio Borrelli
(Keystone)
21 luglio 2022
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«Gli italiani hanno una memoria cortissima: prima tirano le monetine in testa a un loro ex Presidente del Consiglio, poi, meno di un anno dopo, eleggono per la stessa carica l’imprenditore a lui più vicino». A farci notare i paradossi scoperchiati da Tangentopoli – la grande inchiesta sulla corruzione e il finanziamento illecito dei partiti che a partire dal 1992 azzerò la Prima Repubblica – è Goffredo Buccini, editorialista del ‘Corriere della Sera’ che in quegli anni la raccontò dai corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano (vedi anche ‘laRegione’ dello scorso 27 dicembre). Domenica alle 18 Buccini sarà ospite del LongLake Festival alla Punta Foce, al Parco Ciani di Lugano: parleremo del suo ultimo saggio, ‘Il tempo delle mani pulite’ (Laterza), che attraverso i fili d’un godibile memoir dell’epoca tesse anche un lucido bilancio di quel periodo storico. È l’occasione per capire, a trent’anni dagli eventi, quali ne siano state le conseguenze, quali le cicatrici rimaste sul volto della Repubblica italiana.

Dal socialista Bettino Craxi (quello delle monetine davanti all’Hotel Raphaël) passando per Silvio Berlusconi (il suo amico imprenditore) si sarebbe poi arrivati fino al salvinismo e al grillismo. Cosa spiega questi surreali avvicendamenti?

Anzitutto la memoria corta, appunto. Quel che successe con Craxi e Berlusconi si è poi ripetuto con Matteo Salvini, passato da un giorno all’altro da slogan come ‘Padania is not Italy’ a ottenere il 17,5% dei voti – anche al Sud – invocando ‘Prima gli italiani’. O ancora con Giuseppe Conte, presidente del governo più di destra e poi di quello più di sinistra che si sia visto in Italia, senza soluzione di continuità.

Ma allora cos’è stata Mani Pulite?

Mani Pulite è stata un’illusione. È sempre illusorio pretendere di cambiare il Dna etico di un Paese con un’inchiesta giudiziaria: servirebbero processi molto più lenti e profondi, che toccano aspetti quali la formazione e la scuola, abbandonata da anni al suo destino. Il risultato è stata la paralisi. Una democrazia parlamentare che si reggeva su partiti forti si è trovata senza di essi e senza le culture politiche che vi stavano alla base, ma anche senza un valido sostituto.

Colpa del ‘golpe’ dei giudici?

Quella del golpe giudiziario è una grande sciocchezza: la corruzione c’era, il sistema della cosiddetta ‘dazione ambientale’ imponeva tangenti secondo veri e propri tariffari, con i quali il sistema imprenditoriale finanziava i partiti. Quella bufala ha poi alimentato un garantismo peloso, affermatosi già quando Berlusconi – rendendosi conto che non poteva tirare dalla sua parte i giudici di Mani Pulite allo stesso modo in cui si era comprato Van Basten o Gullit per il Milan – si mise ad attaccarli. Col risultato che ancora oggi una parte importante della destra non è solo visceralmente opposta alla magistratura, ma anche alla legalità. C’è però anche un mito speculare, quello per cui ‘non ci hanno lasciato finire il lavoro’, quel dipietrismo indignato che come un fiume carsico è poi rispuntato nel giustizialismo scriteriato di Beppe Grillo e dei suoi Vaffa Day. In realtà fu proprio il pubblico ministero Antonio Di Pietro a delegittimare l’inchiesta che lui stesso aveva avviato, lasciando la magistratura per entrare, appena tre anni dopo, in politica, facendosi peraltro eleggere coi voti di un partito sul quale proprio lui aveva indagato fino a tre anni prima.

Più che i giudici, allora, non fu piuttosto la fine della guerra fredda a privare la Prima Repubblica del suo corsetto, facendola collassare?

La fine della guerra fredda contribuì agli eventi, spingendo gli italiani a capire per la prima volta di poter votare, senza trovarsi nelle braccia di Mosca, formazioni diverse dal cosiddetto Pentapartito (democristiani, socialisti e con peso minore liberali, socialdemocratici e repubblicani, ndr). Ma ci sono altri fattori da non sottovalutare: uno fu l’inizio dell’era Maastricht, dell’integrazione economica europea, che spingeva gli imprenditori a liberarsi da un sistema troppo compenetrato – anche in senso per così dire ‘keynesiano’ – dallo Stato. Gli stessi imprenditori iniziarono a preferire chi fosse, o almeno si dichiarasse votato a politiche più liberiste. Ma c’entra anche la riforma del Codice di procedura penale del 1988-89.

Perché?

Con quella riforma si introdusse in Italia il cosiddetto processo accusatorio, che presuppone un giudice in posizione neutrale rispetto alla pubblica accusa e alla difesa, a loro volta poste sullo stesso piano. Questo però è realistico solo con la separazione tra la carriera dei giudici e quella dei procuratori, altrimenti si resta con un sistema sghembo. Tangentopoli fu anche il lavoro di una magistratura che per la prima volta remava tutta nella stessa direzione per evitare che si arrivasse a quella separazione. Oggi abbiamo ancora a che fare con una riforma incompiuta.

Quella stessa magistratura, che allora veniva osannata, ha nel frattempo perso molta della sua credibilità. Scandali come quello che ha prospettato corruzione e giochi di spartizione all’interno del Consiglio superiore della magistratura, un paio d’anni fa, paiono confermare le critiche di chi sostiene che si tratti di un potere irresponsabile, ombelicale e fuori controllo. O no?

La magistratura ha sicuramente visto crollare il suo ‘rating etico’ e dovrebbe essere lei stessa a fare un passo indietro, a rinunciare al correntismo e alle lotte intestine. L’indipendenza e la funzione del tutto peculiare che le viene giustamente riconosciuta suggerirebbero a maggior ragione un esercizio interno di misura, anche per non prestare il fianco alle delegittimazioni a uso politico. Questi eccessi sono essi stessi la conseguenza di Mani Pulite: con la fine dei partiti tradizionali si creò un vuoto istituzionale nel quale si trovò risucchiata la magistratura, che finì così per fare le veci della politica. Un ruolo che non le compete e che ne ha messo in gravissimo pericolo la credibilità e l’operato.

Intanto l’Italia si affida ai tecnici, persone venute da fuori per disincagliare gli ingranaggi del sistema ogni volta che sta per andare in pezzi. Personaggi di alto profilo, salutati però addirittura come salvatori della patria. Fino a quando?

Già Carlo Levi (scrittore e antifascista, famoso per il capolavoro ‘Cristo si è fermato a Eboli’, ndr) notava che gli italiani non riescono a reggere il peso della responsabilità che accompagna la libertà, e per questo sono sempre in cerca di qualcuno che li sollevi da questa incombenza. Può trattarsi di individualità di alto profilo come Mario Draghi, così come avevamo già visto i governi ‘tecnici’ di Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti. In altri tempi ci si rivolgeva addirittura all’uomo forte, ‘della Provvidenza’. Vediamo però che si è anche molto svelti a liquidare chi fino al giorno prima era così osannato.

Tangentopoli ha contribuito almeno ad alimentare una cultura della legalità?

Voglio sperare che qualcuno abbia capito che lo Stato siamo noi, che certe condotte portano al suicidio dell’intero sistema, che se evado le tasse significa che qualcun altro mi sta pagando il banco di scuola o il letto d’ospedale. L’Italia, però, è ancora quella che osservava Indro Montanelli: se in America l’evasore fiscale è considerato un mascalzone che minaccia tutta la carovana lanciata verso la frontiera, in Italia è salutato come il patriota che frega il gabelliere straniero. Lo Stato è ancora vissuto come qualcosa di estraneo. In tutto questo la politica continua a non mostrare alcuna capacità di autolimitarsi, di risolvere i suoi abusi e i suoi conflitti d’interesse, di capire che certi comportamenti vanno evitati per semplice decenza, senza aspettare che sia un magistrato a sanzionarli.

La stampa italiana sembra essere a sua volta parte di questo sistema: molti giornali sono posseduti da grandi gruppi industriali, tanto che già durante Mani Pulite alcuni di essi presentavano i loro padroni come povere vittime, non come complici del sistema delle tangenti. È cambiato qualcosa?

Ho la fortuna di scrivere per una delle poche, forse l’unica grande testata italiana che fa capo a un editore puro (Urbano Cairo, proprietario tra le altre cose anche del canale televisivo La7, ndr). Non vorrei dunque che il mio paia un sermone fatto col ditino puntato. Però è vero che questa commistione scoraggia ancora la libertà di informazione, in particolare quella d’inchiesta. Il che è un grave problema, visto che proprio la stampa rimane consustanziale alla democrazia: sono i media che aiutano gli elettori a capire se un politico è un farabutto oppure una brava persona.

Tangentopoli è stata anche un capitolo enorme di cronaca giudiziaria. Com’è mutato quel tipo di giornalismo, da allora?

Mi pare che abbia seguito la stessa parabola discendente della magistratura. Ormai si fa troppo spesso l’inchiesta sull’inchiesta, invece che sulla realtà, restando aggrappati alle carte giudiziarie e dando enorme spazio alle indagini preliminari, più che ai processi. Col rischio di massacrare persone innocenti e di sbilanciare completamente il senso e il ruolo del nostro lavoro. Non ha tutti i torti Luciano Violante (ex magistrato e politico di centrosinistra, ndr), quando dice che la vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra pubblici ministeri e giornalisti.

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