L’ex Presidente del Consiglio italiano corre fuori dal Pd e addossa a Letta la colpa della mancata alleanza. Lo abbiamo intervistato.
"Cosa combina Renzi?". Ce lo siamo chiesti parecchie volte negli ultimi anni, con tutto che in Italia tra passar per Machiavelli e passar per bischeri è un niente. Eppure il senatore fiorentino – già Presidente del Consiglio dal 2014 al 2016 – ha spesso stupito gli osservatori rivelandosi una sorta di ‘kingmaker’, qualcuno che riesce a sfilare il tappeto da sotto a un governo (o a due, come nel caso di Giuseppe Conte) e a rivelarsi strategico per la formazione di quello successivo. Ora la sua Italia viva – nata da una costola centrista del Partito democratico – corre insieme ad Azione di Carlo Calenda nel cosiddetto ‘terzo polo’, alternativo tanto alla destra quanto allo stesso Pd, oltre che agli smarriti grillini. Siamo di fronte all’ennesima scissione personalistica oppure c’è ancora una volta qualcosa che non capiamo, un coniglio nel cilindro per rifare l’#ItaliaSulSerio, come da hashtag caro al Renzi sui social? Ieri si trovava a Lugano per discutere col Consigliere nazionale Udc ed editore/caporedattore della Weltwoche Roger Köppel (vedi sotto), sicché abbiamo provato a capirlo direttamente da lui.
Vista da fuori, la scelta di correre separati dal Pd pare assurda, specie con questo sistema elettorale che premia enormemente le coalizioni. Al netto delle vecchie rugginitra lei e il segretario Dem Enrico Letta, cosa diavolo è successo?
Letta non ha voluto fare l’accordo per rancore personale, e questa decisione condanna il Pd alla sconfitta. Purtroppo la scelta l’ha fatta lui: ha distrutto il suo partito. Per noi, tuttavia, questa è comunque una bellissima avventura, perché insieme a Carlo Calenda stiamo cercando di fare un po’ quello che ha fatto Emmanuel Macron in Francia: raccogliere il consenso di ‘pezzi’ di sinistra e di destra moderati, come certi elettori di Forza Italia che non voteranno mai per Giorgia Meloni e quelli del Pd riformista, che non voteranno mai Luigi Di Maio.
Se vuoi puntare sul voto utile devi avere due schieramenti, non quattro come ora. Letta doveva pensarci prima, se intendeva puntare sull’alleanza di tutti contro la destra. Invece non ha voluto né i grillini, e questo posso capirlo, né noi, e questo lo capisco un po’ meno. A quel punto non si può dire "votate per me perché vi salvo", intanto perché non è brillantissimo, e poi perché non è vero: l’unico modo per evitare che Meloni diventi premier è che noi otteniamo più del 10%. Se superiamo questa soglia potremo riportare al governo Mario Draghi, con la sua serietà, proprio come abbiamo fatto dopo le esagerazioni di Giuseppe Conte.
Draghi è un nonno al servizio delle istituzioni, come si è definito lui stesso…
Se invece vincesse Meloni, c’è chi teme il ritorno del fascismo e chi invece prevede ‘solo’ una breve farsa, simile a certi film in orbace e fez di Dino Risi. Cosa dobbiamo aspettarci?
Non saprei valutare Dino Risi, ma escludo il rischio di fascismo. Chi dice che Meloni è fascista non racconta la verità. Il problema, semmai, è che lei non controlla i conti pubblici.
Se è per quello, proprio come gli altri partiti, anche il vostro propone una pletora di aumenti di spesa (158) e tagli alle tasse (35) senza dire da dove prendere i soldi. Che senso ha? Non sarebbe meglio concentrarsi sulle misure urgenti per affrontare la crisi energetica ed economica?
Il nostro governo è stato quello dei conti sotto controllo, delle riforme fatte senza aumentare il debito pubblico. E quando si è trattato d’introdurre certe misure importanti – ad esempio Industria 4.0 e la decontribuzione legata al Jobs Act – lo abbiamo fatto prendendo i soldi dalla lotta all’evasione e dalla spending review. Chi è, invece, l’ultimo premier che ha aumentato l’Iva? Enrico Letta, nel 2013. Io non ho aumentato né debito né tasse, e su questo mi sento molto tranquillo. Quanto alle misure per l’emergenza, occorrerà fare qualcosa per ridurre il costo delle bollette a famiglie e imprese, mentre personalmente auspico un tetto europeo al prezzo del gas. Comunque mi sento di rassicurare gli amici svizzeri, giustamente attenti alle questioni economiche: sui conti noi siamo quelli seri, non come Silvio Berlusconi che promette flat tax e dentiere gratis.
A proposito di Svizzera: Berna attende che il parlamento italiano approvi l’accordo fiscale sui lavoratori frontalieri, che introduce una tassazione maggiorata e distribuita sulle casse di entrambi i Paesi. Aspettiamo Godot?
Purtroppo si è fermato un po’ tutto. Il mio governo iniziò i negoziati con la Svizzera per l’accordo quadro, purtroppo saltati negli ultimi anni. Speriamo bene, anche se non sono molto ottimista circa una soluzione nel breve termine.
Lei e la sua famiglia siete stati oggetto di una miriade di inchieste, spesso condotte con metodi discutibili, al punto da far fiutare a molti garantisti – anche non ‘renziani’ – la puzza di fumus persecutionis. Lei ci ha appena scritto un libro, ‘Il Mostro’. Ma allora aveva ragione Berlusconi, quando metteva in guardia contro i ‘complotti’ mediatico-giudiziari?
Io non grido al complotto. Ho subìto quella che ritengo una clamorosa aggressione, ma non ho mai urlato "al lupo": mi sono difeso in aula e in Parlamento, anche denunciando quei giudici che avevano violato – loro, non io – la legge. Mi rendo conto che questo atteggiamento non paga, perché ci si espone a un massacro mediatico. Ma sono felice di come stanno andando le cose: la Cassazione ci ha dato ragione cinque volte e penso che si possa iniziare una pagina nuova nel rapporto tra politica e magistratura. Ad ogni modo non mi sentirà mai rispondere coi toni di Berlusconi, non farò mai leggi ad personam. Però non mollerò mai di un centimetro nella mia battaglia di giustizia.
Nato nel 1975 a Rignano sull’Arno, a pochi chilometri da Firenze, Matteo Renzi è sempre stato un rottamatore. Come quando sul giornaletto del liceo – dove secondo un compagno lo chiamavano ‘il Bomba’ – scriveva della necessità per la Democrazia cristiana di liberarsi del segretario Arnaldo Forlani e fare spazio al cambiamento. Democristiano di famiglia e di spirito, boy scout, chierichetto, stopper nella Rignanese, da giovane è stato anche concorrente a ‘La ruota della fortuna’: da Mike Bongiorno, all’epoca benedicente icona del prosciutto cotto e del berlusconismo a reti unificate, vinse 48 milioni di lire. Una bella sommetta.
Renzi si è laureato in giurisprudenza, anche se ha litigato col relatore al momento di discutere la tesi sul leggendario sindaco di Firenze Giorgio La Pira, un fervente cattolico sociale soprannominato "il sindaco santo" (meno impressionato ne fu un altro toscano, il giornalista fucecchiese Indro Montanelli, secondo il quale si trattava di "un pasticcione ben intenzionato che, nel nome del Signore, appoggia le peggiori cause appellandosi ai migliori sentimenti"). Sposato, tre figli, Renzi è stato a sua volta alla guida del capoluogo toscano per cinque anni a partire dal 2009, quando scalzò i suoi concorrenti commentando, come ricorda Aldo Cazzullo: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave».
Ma la rottamazione vera è iniziata a fine 2013. Fu allora che Renzi chiuse l’epoca del pacioso Pier Luigi Bersani, esponente della vecchia guardia Pd – quello che "non siamo mica qui a smacchiare i giaguari" – succedendogli come segretario. Per poi rimpiazzare, pochi mesi dopo, anche il Presidente del Consiglio Enrico Letta: memorabile fu il tweet con cui Renzi lo rassicurò prima di pugnalarlo, quell’"Enrico, stai sereno" destinato ad acquisire in poche ore un retrogusto shakespeariano (il fatto che oggi proprio Letta sia alla guida del Pd non ha certamente aiutato i tentativi di alleanza).
Il governo dell’enfant terrible rignanese si distinse per lo slancio riformista, contestato però anche da sinistra, come nel caso del ‘Jobs Act’ per la liberalizzazione del mercato del lavoro. Con Renzi furono introdotte in Italia le unioni tra coppie dello stesso sesso. Ma il naufragio era dietro l’angolo, e giunse con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale per superare il paralizzante ‘bicameralismo perfetto’ del legislativo italiano. Un voto che lo stesso Presidente del Consiglio aveva elevato a pagellone su se stesso, e che pose fine ai suoi sogni di gloria. Ad abbattere il governo – di nuovo, come in un Amleto da filodrammatica di provincia – fu anzitutto la sinistra-sinistra, assetata di vendetta.
Da allora – era la fine del 2016 – Renzi è rimasto un battitore libero all’interno del centrosinistra italiano, capace di fronde e sparate che ti fanno pensare "questo è un megalomane", ma anche di mosse da politico di razza, al netto di numerose polemiche (non ultima, quella per i lauti contratti di consulenza col macellaio saudita bin Salman). Il suo istinto si rivide bene nel 2019, quando si adoperò per mettere in fuorigioco l’altro Matteo (Salvini), lasciando che il golpe del mojito gli scoppiasse tra le mani e permettendo la metamorfosi del governo Conte da gialloverde a giallorosso. Salvo poi uscire lui stesso dal Pd e formare Italia Viva, forza centrista che sfiducerà proprio Giuseppe Conte per agevolare l’arrivo di Mario Draghi.
Per le elezioni del prossimo 25 settembre i sondaggi attribuiscono al ‘terzo polo’ il 7% dei consensi. Il Pd sarebbe di poco sotto al 20% e la destra di Giorgia Meloni, Salvini e Silvio Berlusconi attorno al 45%, con i Fratelli d’Italia meloniani che da soli raccoglierebbero il 25% dei voti, mentre i Cinquestelle, soli e abbandonati, potrebbero non superare il 15 per cento.
Cosa faranno Renzi e Calenda dopo le elezioni dipenderà molto dal risultato finale, che i suoi leader riterranno soddisfacente solo se sfonderà quota 10%. Nel qual caso Renzi, un po’ come Bettino Craxi negli anni Ottanta, potrebbe cercare di giocare all’ago della bilancia, ritagliandosi ancora una volta il ruolo di sensale di governi. Intanto, tra il serio e il faceto, ha già messo le mani avanti con la favorita Giorgia Meloni: «Guarda Giorgia, non so se vinci, ma sappi che ogni due anni faccio cadere un governo», ha scherzato un paio di giorni fa, aggiungendo che «se c’è un governo Meloni io voto contro, se c’è Draghi voto a favore».
È stato coronato da un grande successo di pubblico il vivace incontro al Palacongressi di Lugano tra Köppel e Renzi, nell’ambito dell’Endorfine Festival e sotto la moderazione del direttore di TeleTicino Sacha Dalcol. Tema: ‘L’Europa che verrà’, con Renzi a difendere il progetto dell’Unione europea – e la sua posizione in merito alla guerra in Ucraina – mentre il ‘Putinversteher’ Köppel ha riportato le ragioni della neutralità e sottolineato il "grande errore" della partecipazione svizzera alle sanzioni. È a quel punto che Renzi, provocatoriamente, ha ribattuto: "Se domani la Francia, la Germania o l’Italia attacca la Svizzera, che fate? Non vi appellate alla comunità internazionale? E quella comunità cosa dovrebbe fare, lasciare che qualcuno si prenda un pezzo del vostro territorio?". Il "sovranista di Firenze" e "membro onorario dell’Udc" – come lo ha scherzosamente chiamato Köppel in una serie di scambi distesi, non di rado gigioneggianti – ha anche difeso l’importanza di affiancare sanzioni e diplomazia, mentre il politico e giornalista Udc ha denunciato il presunto "vassallaggio" europeo rispetto agli Usa.