Consultazioni fino a sabato per il presidente del Consiglio in pectore. Il sostegno di Conte avvicina anche M5S. La Lega: “Scelga tra noi e i Cinquestelle”
Non è un coro di sì, ma poco ci manca, per Mario Draghi. I pesi piuma, incontrati nelle consultazioni di oggi, hanno tutti dato massimo sostegno a un governo capeggiato dall'ex presidente della Bce. Tra i pesi massimi a dire un secco "no" a Draghi non c'è ancora nessuno (c'è un peso medio, Fratelli d'Italia). Il Partito Democratico aveva anticipato i tempi mostrando entusiasmo fin dalla scelta del nome fatta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, più o meno lo stesso è avvenuto con Forza Italia.
In zona Cinquestelle siamo al "ni", ma sempre più orientati verso il sì dopo il messaggio di grande apertura a Draghi fatto dal premier uscente Giuseppe Conte (“Io non sarò d'ostacolo. I sabotatori stanno altrove”). Anche l'attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, esponente di spicco di M5S, dice che è arrivato “il momento della responsabilità". Insomma, tutto fa credere che un governo Draghi si farà. A creare scompiglio, come spesso accade, è il leader della Lega Matteo Salvini, che non si mette di traverso, ma manda un messaggio chiaro: “Draghi deve scegliere se governare con noi o con i Cinquestelle. Abbiamo programmi opposti“. I primi a rispondergli sono stati esponenti del Pd, che hanno chiuso la porta alla Lega. I conti si tireranno solo alla fine, ma Salvini potrebbe anche giocare a fare il finto responsabile, del tipo “io ci sto, ma solo alle mie condizioni”, sapendo che quelle condizioni difficilmente ci saranno. È un'ottima tattica per poi ricominciare a sbraitare con quella che sembra - o perlomeno si vuol far passare - per una buona scusa. A provare a mettere dei punti fermi sono comunque un po' tutti, per i Cinquestelle, la linea da non oltrepassare è il reddito di cittadinanza, fortemente voluto e difeso dal movimento.
L'unico obiettivo comune dei partiti pare sia quello di ottenere da Draghi un governo politico, vale a dire un esecutivo formato da esponenti dei partiti e non i cosiddetti tecnici. Su questo ancora non è chiaro quanto sia intenzionato a concedere Draghi, che potrebbe adottare una formula mista, già usata in passato da Carlo Azeglio Ciampi, lasciando a uomini o donne di sua fiducia estranei alle dinamiche di partito solo alcuni ministeri chiave. Se non tutti i partiti si scaldano per la nomina di Draghi a farlo sono state le istituzioni europee e i mercati, con l'endorsement del presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l'andamento dello spread - sceso di colpo di diversi punti - andati di pari passo.
Le consultazioni non sono fissate nella Costituzione, ma sono ormai una consuetudine a cui pare impossibile rinunciare. Il primo giro lo tiene il presidente della Repubblica prima di nominare un presidente del Consiglio (particolarmente importanti sono quelle post-elezioni, in cui i partiti scoprono le carte), si annusa l'aria che tira in Parlamento e di conseguenza arriva il cosiddetto mando esplorativo. Può essere dato direttamente al premier designato oppure - in situazioni particolarmente delicate - a un altro membro delle istituzioni, solitamente il presidente del Senato o della Camera: è accaduto negli ultimi con Roberto Fico, che ha sondato i vari gruppi per capire se ci fosse ancora uno spazio per un terzo governo Conte.
Draghi ha iniziato il giro di consultazioni, come da copione, con i piccoli e piccolissimi partiti, tra cui quelli delle minoranze, con pochissimi parlamentari, in quanto espressioni di realtà regionali e locali (Val d'Aosta e Alto Adige in primis). Il coefficiente di difficoltà e i minuti o le ore passate a discutere solitamente si alzano con l'aumento del peso del partito. Non c'è una durata prefissata, possono bastare due-tre giorni, a volte sono stati di più. Se c'è coesione tra partiti, quelli della medesima area vengono convocati insieme, altrimenti, come accade questa volta con il centrodestra si va in ordine sparso.
Solo alla fine delle consultazioni il premier scioglie la riserva e decide se abbandonare il campo oppure presentare al capo dello Stato la propria lista di ministri. Nel primo caso il presidente della Repubblica ha tre strade: affidare il pre-incarico a un'altra persona, sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, oppure recuperare il governo dimissionario e mandarlo in Parlamento per affrontare la prova della fiducia.
In caso positivo, viene consegnata la lista dei ministri a cui il presidente può porre obiezioni (celebre è il rifiuto al nome del poi condannato Cesare Previti al ministero della Giustizia, proposto da Berlusconi e rimandato al mittente da Oscar Luigi Scalfaro). Dopo il via libera del presidente c'è il giuramento al Quirinale, il primo consiglio dei Ministri e il rito della campanella, consegnata dal premier uscente al suo successore. Ultimo passaggio resta quello della fiducia in aula, con voto palese e nominale. L'ideale è ottenere la maggioranza assoluta, ovvero metà più uno degli eletti, ma il governo nasce anche con la maggioranza semplice, ossia con la metà più uno dei votanti.