Economia

Gli Usa e la fallimentare politica dei dazi sull’export cinese

Trascurabile l’impatto sull’economia del Paese asiatico, rivela uno studio. E a pagarne le conseguenze sono in primo luogo i consumatori americani

15 gennaio 2020: Stati Uniti e Cina firmano un accordo per la riduzione dei dazi sulle merci cinesi
(Keystone)

Le sorti della globalizzazione dipendono in misura non piccola dalle relazioni fra Stati Uniti e Cina. Se lo scorso anno il temuto collasso delle filiere di fornitura non è avvenuto, e lo scambio internazionale si è contratto in misura assai inferiore rispetto alle previsioni, le guerre commerciali rendono il mondo più fragile e più povero. L’idea che il Dragone vada in qualche modo «contenuto» è ormai patrimonio di tutta la classe dirigente americana, che il presidente sia Trump o invece Biden conta relativamente poco. Ma una cosa è stabilire un obiettivo, altra calibrare i mezzi. Dopo un’ampia revisione dei dazi imposti dall’amministrazione Trump, la ‘trade representative’ degli Stati Uniti, Katherine Tai, ha annunciato che sostanzialmente essi si sono risolti in un fallimento. Da una parte, hanno danneggiato i consumatori americani, dall’altra non sono serviti a centrare il fine politico che gli americani si erano dati: indurre la Cina a rivedere un modello economico a trazione pubblica.

Che si tratti della produzione di acciaio o di pannelli fotovoltaici (oggi la Cina rappresenta l’80% della produzione globale), le lamentele degli americani sono molte e tendono ad attribuire alla concorrenza cinese la colpa del cambiamento del panorama produttivo Oltreoceano.

Lo scenario

Una ricerca dell’Università della California Irvine suggerisce che grossomodo l’11% delle aziende multinazionali siano uscite dalla Cina nel 2019, il primo anno in cui i dazi erano in vigore, con un aumento significativo rispetto agli anni precedenti.

Ma durante lo stesso anno il numero complessivo di imprese multinazionali che operano in Cina è effettivamente aumentato. Nonostante la guerra commerciale fra Trump e Xi abbia fatto lievitare i costi, gli investimenti internazionali verso il territorio cinese non si sono fermati. In generale, l’impatto complessivo dei dazi sull’economia cinese è stato di circa lo 0,29% del Pil: non abbastanza da innescare una rivoluzione. Le aziende si sono adattate alle misure protezionistiche e hanno cercato di «trasferire» i costi, in termini di prezzi superiori, ai consumatori statunitensi.

Analisti come Scott Lincicome del Cato Institute hanno notato che l’accordo sottoscritto con la Cina a inizio 2020 è in realtà tanto «unilaterale» da non rappresentare un incentivo sufficiente affinché i cinesi lo rispettino per davvero. Nell’accordo con gli Usa, la Cina si è impegnata ad acquistare quantità fisse di beni e servizi statunitensi e a rispettare le regolamentazioni statunitensi sull’agricoltura, la valuta, i servizi finanziari e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Al contrario gli Usa «non si sono impegnati a fare quasi nulla».

La riduzione

La riduzione sui dazi alle merci cinesi, che aveva indotto alcuni a immaginare una sorta di tregua alla guerra commerciale continuamente combattuta da Trump, era stata conclusa separatamente e aveva avuto un valore modesto. Questo è un problema dal momento che, come ha ricordato Lincicome, gli accordi commerciali funzionano perché ciascuna delle parti è spinta a ottemperarvi: in primo luogo, poiché ottiene qualcosa in cambio (accetto di seguire le tue norme se tu mi consenti di esportare i miei prodotti), in secondo luogo per ragioni reputazionali (c’è una sorta di sanzione dell’opinione pubblica internazionale, se non vi si ottempera), in terza battuta perché ciascuno dei Paesi coinvolti fa una serie di cose sperando che le facciano anche gli altri.

La reciprocità

Questo però non richiede necessariamente «reciprocità» ma almeno una certa simmetria. Ci si deve obbligare reciprocamente. Per questo si tratta di faccende tradizionalmente lontane dai riflettori e che non diventano materia di campagna elettorale. Il fatto di avere strappato abbondanti concessioni in cambio di poco o niente, che per un leader politico è un successo spendibile innanzi agli elettori, si rivela un problema nel quotidiano tentativo di far marciare gli accordi.

La politica daziaria sarà modulata diversamente, sotto l’amministrazione Biden: le parole d’ordine sono, ovviamente, il green e l’aspirazione a misure ‘worker centric’, centrate sul lavoratore, formula naturalmente ambigua sotto la quale può passare la difesa di interi «comparti» rispetto ai quali il ceto politico sente l’esigenza di tutelare i livelli occupazionali.

Un ostacolo anche in futuro

Ma la sostanza delle cose non cambia. I dazi resteranno e continueranno a ostacolare gli scambi fra gli Usa e il loro terzo partner commerciale, cercando semmai di riorientarli in direzioni più gradite alla politica. Un vecchio saggio di William Graham Sumner si intitolava ‘La conquista degli Stati Uniti da parte della Spagna’: si riferiva alla guerra ispano-americana del 1898 e suggeriva che i vincitori avessero finito per assumere le abitudini politico-culturali dei vinti.

Per combattere le distorsioni indotte dal capitalismo di Stato cinese gli americani ne stanno introducendo a loro volta molte nella loro economia. I gruppi di pressione ringrazieranno, i consumatori meno.

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