SPETTACOLI

Pietro Gori e la fiaccola dell'anarchia

Nel documentario ‘Addio Lugano bella’, in onda il 19 novembre su La1, rivive la storia dell'autore di una canzone conosciuta in tutto il mondo

L’università dell’anarchismo
(@Library of Congress)
10 novembre 2023
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“I potenti della terra / i signor del mondo intero / dalla logica e dal vero / si son visti minacciar”: quando il musicista Mattia Mirenda, estratta la chitarra dalla custodia, intona il ‘Canto dei reclusi’ nella rispettosa indifferenza di turisti e studenti che bighellonano in via Cattedrale, si fatica a credere che sul finire dell’Ottocento la stampa internazionale dipingesse Lugano come l’università dell’anarchismo e della sovversione. L’esplosione del terrorismo anarchico aveva trasformato, agli occhi dell’opinione pubblica, i pensatori libertari rifugiatisi in Svizzera in cattivi maestri che mettevano le bombe in mano alle persone semplici, e fu così che alle migliori menti anarchiche dell’epoca venne negato l’asilo che fino ad allora era stato loro concesso.

Tra gli espulsi, l’avvocato, giornalista, scrittore e compositore toscano (siciliano di nascita) Pietro Gori, il portavoce di una generazione di disillusi dagli esiti dell’unificazione dell’Italia, che non aveva prodotto le riforme e l’uguaglianza sociale che i suoi propugnatori avevano sbandierato: “Ci siamo fermati e a un tratto non sappiamo più dove andare e cosa fare — diagnosticava all’epoca Francesco De Sanctis –. Politica è farsi gli amici e gli alleati, vantare protezioni e relazioni, parlare a mezza bocca, congiungere l’intimidazione con la ciarlataneria”. La propaganda di Gori non si svolgeva solo attraverso scritti e conferenze, ma anche e soprattutto con il canto sociale. Il documentario ‘Addio Lugano bella. Una storia nella storia’, che verrà proiettato mercoledì 15 novembre alle 19 al Lux art house di Massagno e poi diffuso domenica 19 alle 10.30 su La1 all’interno di ‘Paganini’, prende le mosse dalla più nota canzone di Gori. Ne parliamo col produttore Christian Gilardi.

Ci racconta com’è nata l’idea del documentario?

Passeggiando tra le stradine di Lugano in via Lavizzari, una stradina tra via Canonica e viale Cattaneo, mi sono imbattuto in un murale che raffigura un signore con dei baffi a manubrio su una bicicletta, con indosso una bombetta e con una sciarpa rossa che gli va negli occhi. Passando da quelle parti diverse volte, mi sono sempre domandato chi fosse, anche perché non ci sono targhette identificative. E così mi sono informato e mi è stato detto che quell’uomo è Pietro Gori, l’autore di ‘Addio Lugano bella’. Una canzone che in Ticino conoscono tutti, ma è famosissima anche nel resto del mondo: ne esiste persino una versione in cinese. Alzi la mano chi non l’ha intonata almeno una volta, però alzi la mano anche chi conosce la storia che c’è dietro... Da lì è nato il mio entusiasmo come produttore, che ho trasmesso al regista Fabio De Luca: abbiamo studiato la vicenda, ci siamo confrontati con gli storici e le persone che ne sapevano più di noi e poi abbiamo ragionato sul modo migliore di trattarla musicalmente, scegliendo un’autorità in materia, Alessio Lega, due volte vincitore della Targa Tenco, e infine coinvolgendo con lui musicisti della Svizzera italiana che lavorano nell’ambito del folk e del cantautorato. In questo modo, riproponiamo versioni attuali di brani che, da tanti punti di vista, ci parlano ancora oggi, visto che le idee anarchiche continuano a fare paura per la loro spinta libertaria.

È anche un’occasione per dare spazio a una scena cantautorale poco conosciuta rispetto a quella italiana?

L’Italia è un Paese molto più grande, con una storia segnata anche da forti contrapposizioni ideologiche, in mezzo alle quali l’anarchia è stata uno dei pensieri meno compresi e più strumentalizzati, che però ha ispirato l’opera di Fabrizio De André e di Piero Ciampi e brani come ‘La locomotiva’ di Guccini. Da noi c’è una scena più ridotta, ma i nostri musicisti sono molto attenti all’evocazione che la musica può dare alle idee. La nostra intenzione è stata quella di portarli a dialogare con i loro omologhi italiani, così come gli anarchici ticinesi si sono confrontati con quelli italiani.

Che cosa pensa che rimarrà agli spettatori di questa esperienza?

Il documentario vuole raccontare, con una narrazione divulgativa, un pezzettino di storia che si è svolta nella Svizzera italiana, ma che ha influito anche sulla vita politica italiana dell’epoca: basti pensare che fu Capolago a ospitare il secondo congresso anarchico, terminato con lo strappo di Andrea Costa, che poi tornò in Italia a fondare il Partito Socialista. Un vero e proprio intrigo internazionale, come lo ha definito lo storico ticinese Maurizio Binaghi: oltre a Gori e Costa a Lugano erano stati accolti Bakunin, che abitava a Besso, Malatesta, francesi come Élisée Reclus. Poi le cose cambiarono quando il Consiglio federale decise di espellerli in seguito al regicidio di Monza e all’uccisione del presidente francese Carnot. Gli spettatori avranno modo di conoscere una storia che non è così nota, nonostante la canzone simbolo riguardi Lugano e le cime ticinesi innevate.

Il documentario può essere un punto di partenza per qualcosa di più ampio?

Rimanendo nell’ambito culturale, la Svizzera italiana ha bisogno di riappropriarsi di spazi che siano veramente costruttivi, che creino legami sul territorio, con un movimento di persone che lavorino qui e facciano cultura qui per le persone di qui. Intendiamoci: è importante ospitare il grande artista che rimane una sera e poi se ne va, in modo che abbiamo anche noi l’opportunità di ammirarlo dal vivo, ma è anche vero che la cultura è qualcosa di più profondo e radicato, dobbiamo continuare su questa strada già inaugurata da vari organizzatori culturali.

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