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Manijeh Hekmat: ‘Grido la mia esistenza’

A colloquio con la regista iraniana a Lugano per ritirare, dalle mani del connazionale Abbas Amini, il premio Diritti Umani per l’Autore 2023

‘In Medio Oriente non puoi separarti dai problemi sociopolitici. Se ti ci allontani, essi tornano e si attaccano a te’
27 ottobre 2023
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Il Ffdul sta per consegnarle il Premio Diritti Umani per l’Autore 2023. A Lugano, prima di ritirare il riconoscimento – la cerimonia di premiazione è fissata per le 20.30 di questa sera al Cinema Corso – Manijeh Hekmat ci ha raccontato il suo approccio al cinema, con una particolare attenzione verso le tematiche politico-sociali. Appartenente alla seconda nouvelle vague del cinema iraniano, Hekmat condivide la scena con registi pluripremiati come Abbas Kiarostami, Jafar Panahi e Asghar Farhadi. Un cinema che soffre la forte censura governativa, altalenante ma presente negli ultimi cinquant’anni, ciononostante in grado di produrre film oltre la propaganda, una sorta di piaga della settima arte ben nota e che ha condizionato anche capolavori dei grandi maestri sovietici come Ejzenštejn e Pudovkin oppure, in maniera ancor più eclatante, il cinema nazista di Leni Riefenstahl. Una forma di repressione causata dalla paura del potere che il cinema detiene, quello di influenzare le masse, temuto oggi perlopiù dagli Stati dittatoriali e totalitari. Tuttavia, il coraggio di esprimere la propria voce riesce a trovare spazio anche in Iran, la cui nuova generazione di cineasti, come Abbas Amini, a Lugano con ‘Endless Borders’, sta raccogliendo la lotta portata avanti dagli autori precedenti e si ribella al controllo totale che la nazione cerca di esercitare sull’arte.

‘Un muro in cemento armato’

A Lugano, Manijeh Hekmat ha paragonato il proprio percorso a un muro in cemento armato contro cui sbattere la testa, sanguinare ma non per questo smettere di provare, con una perseveranza stimabile nei suoi oltre 40 anni di lavoro nel mondo dell’audiovisivo, alla ricerca di un’indipendenza che si discosta appunto dal restante 90 percento circa del cinema iraniano, come detto di propaganda. Un controllo governativo che inizia dall’approvazione della sceneggiatura, motivo per il quale c’è una tendenza a trovare dei sotterfugi, anche illegali, per poi riuscire a girare un film diverso: questo è, per esempio, il caso di ‘Women’s Prison’, che fu indicato come un film che parlava del problema delle droghe nei carceri femminili, tematica in realtà molto marginale nel prodotto finito; allo stesso modo, ‘19’, film che avrebbe dovuto essere tagliato di ben quaranta minuti a causa di riferimenti a momenti di pre e post rivoluzione, alle riforme interne e alla guerra.

Molto felice di essere a questo festival, la regista non ha nascosto la propria fede nei giovani, soprattutto in quelli non disposti a cedere alle pressioni governative nonostante l’inevitabile scarsità di fondi concessi, oltre che nelle nuove potenzialità tecniche, due carte vincenti da giocare per muoversi verso un futuro più roseo e libero.

Manijeh Hekmat: cosa significa essere una regista iraniana oggi?

Mi sento fortunata a essere regista e produttrice in Iran, anche se è molto difficile e certe volte vieni distrutta, tanto da desiderare una maggiore normalità. Anche con queste premesse, resto fiera, grazie agli strumenti che ho in mano, e sento di poter trasformare ciò che ho in mente in immagini, per regalarlo al mondo secondo il mio flusso.

Visto il tragico destino del collega Dariush Mehrjui, sente una maggior paura nel praticare questa professione?

Certo, ha creato terrore e paura, tutti devono stare attenti a sé stessi e non si sa chi è stato, anche se speriamo che il colpevole venga rivelato. Dariush Mehrjui (accoltellato a morte nella villa in cui abitava; stessa sorte è toccata alla moglie, la scrittrice Vahideh Mohammadifar, ndr) era come un maestro e noi siamo tutti suoi allievi. Abbiamo passato molti momenti come questi e tanti dei nostri scrittori e registi sono stati uccisi in questa maniera, anche brutale. Questi accoltellamenti colpiscono direttamente la cultura e l’arte. Non voglio farne un dramma, ma queste ferite sono anche nel corpo di tutti noi, non riusciamo a superare facilmente questo dolore perché Dariush Mehrjui è il simbolo della scomparsa di una generazione, di un’intelligenza intellettuale, un pezzo di storia del cinema e un tramite di comprensione della nostra cultura. Quando spariscono persone come queste, il mondo e la vita diventano più difficili e perdono di colore.

I suoi film riflettono esperienze personali?

No, non sono esperienze dirette, ma credo possano essere accadute realmente. Riflettono le problematiche che identifico. Non mi voglio fare vanto dei film che faccio, voglio solo dimostrare come con minime spese si possa comunque fare un film. L’atmosfera creata dal governo totalitario ci vuol far credere che senza i loro soldi e sovvenzioni non sia possibile girare, ma noi i film li abbiamo fatti, e col minimo a disposizione. È vero, sono film che per questo motivo hanno le loro debolezze e mancanze, ma sebbene la competizione resti sleale, noi rimaniamo con i nostri principi, perché vogliamo gridare la nostra esistenza e mostrare che siamo presenti.

Il suo cinema ha uno scopo più artistico oppure politico?

In Medio Oriente non puoi separarti dai problemi sociopolitici. Se ti ci allontani, tornano e ti si attaccano. Se stai girando in Iran le cose sono automatiche, un po’ come questo tappeto sotto di noi: i filamenti sono annodati in modo complicato, ma alla fine il disegno è unico, preciso e bellissimo.

Oggi

Insieme alla consegna del premio a Hekmat e alla proiezione del suo ‘19’, in prima svizzera, il venerdì del Ffdul propone, alle 18.30 al Cinema Iride, un’altra prima nazionale: ‘Campo abierto’, di Alessio De Gottardi, Emanuel Hohl e Matthias Müller Klug. Un’ora prima, al Cinema Corso, la proiezione di ‘Jaima’, di Francesco Pereira, film sulla lotta del popolo Saharawi realizzato dagli studenti del Cisa insieme a quelli della Escuela Formaciòn Audiovisual. Il programma completo della giornata è su www.festivaldirittiumani.ch).

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