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Risse post-lockdown: è l'effetto 'rimbalzo'

Lo psichiatra Michele Mattia ci spiega come certi fenomeni siano dovuti a contingenze particolari, ma anche a complessi fattori sociali

(Ti-Press)
18 luglio 2020
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Alcune risse, qualche episodio di violenza, teppismo assortito: i numeri e i fatti non ci permettono d’intonare il classico ‘dove andremo a finire signora mia’, ma il ritorno alla vita dopo il lockdown ha portato in dote ai giovani – insieme a una gran voglia di godersi l’estate – il rischio d’infilarsi in cronache poco costruttive, dalle scazzottate nei bar di Bellinzona ai minacciosi assembramenti alla foce del Cassarate. L’impressione è che la voglia di aggredire nuovamente la vita stimoli in alcune persone comportamenti eccessivi. Ne parliamo con Michele Mattia, psichiatra, psicoterapeuta della famiglia e presidente dell’Associazione della Svizzera italiana per l’ansia, la depressione e i disturbi ossessivi compulsivi (Asi-Adoc).

Dottor Mattia, a volte si liquidano certi fenomeni col sempiterno “è che son tutti viziati”. C’è del vero?

Si tratta di una generalizzazione, tanto più che bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire viziati. Con queste credenze cognitive – che si rivelano in frasi come “oggi si ha tutto, si ha troppo…” e via dicendo – non spieghiamo nulla: ci limitiamo a isolare certi fenomeni dentro a una casella, senza porci gli interrogativi culturali, sociali e politici che stanno alla loro origine.

In che modo il lockdown può avere contribuito a comportamenti aggressivi?

Una rassegna pubblicata dalla rivista ‘Lancet’, e basata su oltre tremila studi concernenti quarantene passate, conferma una tendenza ricorrente: mentre durante la quarantena stessa si assiste a una riduzione degli atti di tensione e aggressività – come abbiamo visto anche con la violenza domestica –, con le riaperture si ha invece una sorta di ‘effetto rimbalzo’: come se nella smania di tornare alla vita si riscontrassero più difficoltà nel rispettare le regole; a maggior ragione se, come in questo caso, quelle regole rimangono più limitanti rispetto al periodo pre-pandemia. Inoltre è stato rilevato che più è lunga la quarantena, più i problemi di aggressività tendono poi a manifestarsi.

Un fenomeno più diffuso tra i giovani.

L’età adolescenziale e post-adolescenziale porta con sé una maggiore propensione alla disinibizione, all’andare contro le regole, a sfidarle. La valutazione dei pericoli e delle conseguenze di quello che si fa è limitata. In gergo psicologico si dice che l’attivazione prevale sull’inibizione. Alcune persone seguono comunque le regole in modo stretto, altre invece manifestano comportamenti spavaldi, in una sorta di ‘voracizzazione’ della vita. Questo può fare emergere l’aggressività dopo aver vissuto una situazione per noi molto strana: in un certo senso uno stato di polizia, seppure naturalmente protettivo e non repressivo. Va poi aggiunto il fatto che siamo in estate, stagione che spinge ancora di più a voler uscire e socializzare. 

Ci sono contesti sociali ‘scatenanti’?

La notte, la presenza di luoghi di forte aggregazione, alcol e sostanze stupefacenti naturalmente contribuiscono a enfatizzare questa tendenza. Certi contesti intervengono ulteriormente sulla nostra sovraeccitazione. Conta molto anche il gruppo nel quale ci si trova, il suo stato di aggressività intrinseca e le sue dinamiche interne.

Il fatto di avere pochi luoghi di aggregazione – a Lugano la Foce è stata finora il solo accesso centrale gratuito al lago – può aggravare la situazione, magari creando contesti da ‘pentola a pressione’?

Certo: più limitiamo gli spazi che ci permettono di entrare in una dimensione ludica e di divertimento, più aumentiamo gli assembramenti negli spazi che rimangono. E più la concentrazione di persone è elevata, più ci sono ad esempio rischi di colluttazione. La gestione del rischio dipende quindi anche dalla gestione collettiva degli spazi sociali.

La soluzione proposta, nel breve termine, è stata quella di chiudere ulteriormente gli accessi (anche se nei prossimi mesi a Lugano si realizzeranno nuovi accessi al lago). Non è controproducente?

Si tratta di una soluzione comprensibile dal punto di vista politico, date anche le contingenze. Ma dal punto di vista sociologico non aiuta, perché invece di responsabilizzare le persone si ritorna a un’ottica repressiva-punitiva. Trovare la soluzione giusta è sempre difficile, specie oggi che perdura l’incertezza circa la futura evoluzione della pandemia. In linea di massima, però, è importante rinforzare il senso di responsabilità, ad esempio attraverso campagne d’informazione che permettano ai giovani di capire meglio le conseguenze dei loro comportamenti, campagne che per ora mi sembrano mancare.

A cosa possono servire l’informazione e la sensibilizzazione?

Sono importanti per educare alla rilevanza dell’io sociale in una situazione così complessa, per far capire che i nostri comportamenti individuali hanno conseguenze per la collettività: quello che si è fatto più in generale spiegando l’importanza della distanza sociale per limitare i contagi. Spesso l’adolescenza – ma non solo quella – ha una visione ridotta del legame tra il proprio comportamento e i suoi effetti sulla società.

Cosa può fare la famiglia?

Anche in questo caso è più importante comunicare che reprimere. Anche i genitori possono veicolare il messaggio circa le conseguenze per la comunità delle proprie azioni, ad esempio nel caso di una rissa. Non si tratta di andare contro il figlio o al contrario di prenderne le difese acriticamente, ma di sviluppare un dialogo più articolato sui comportamenti adeguati, per trovare insieme un equilibrio tra disinibizione e autocontrollo.

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