Impieghi a rischio, strette al credito per famiglie e piccole imprese, abbandono delle regioni periferiche e monopoli spaventano molti osservatori.
Si è parlato tanto di soldi, di rischi finanziari e promesse politiche, in questa fase che ha visto il Credit Suisse in bilico tra la vita e la morte. Ma che ne è del lavoro? Dopotutto, dietro ai numeri ci sono “migliaia di persone la cui vita è appesa a un filo, dopo anni già difficili e turbolenti”, come ci ricorda Natalia Ferrara, co-direttrice dell’Associazione svizzera degli impiegati di banca (Asib). L’incertezza colpisce anche il comparto ticinese, già fortemente ridimensionato dagli sviluppi degli ultimi anni: “Credit Suisse è un attore molto importante in Ticino, con 500 posti di lavoro in una piazza finanziaria che oggi ne conta circa 5mila. Qualsiasi cosa accada, dunque, il contraccolpo sarà molto forte. Nel caso di un’acquisizione è evidente che si parlerà di doppioni, ma questi doppioni sono posti di lavoro, sono persone, e quello che abbiamo vissuto in piccolo con Bsi ed Efg lo andremmo a rivivere su grandi cifre in molto meno tempo”.
Una preoccupazione espressa anche da Sergio Rossi, professore ordinario di Macroeconomia ed economia monetaria nell’Università di Friburgo: “Il calo del numero di attività, filiali e succursali peserà sull’impiego nel settore bancario, con varie ripercussioni negative anche per diverse aziende nel campo delle tecnologie finanziarie digitali, che soffriranno per il taglio dei servizi richiesti loro dalla nuova istituzione bancaria che nascerà dallo smantellamento di Credit Suisse. Si tratta di persone che difficilmente troveranno un altro lavoro in un comparto che già da anni sta licenziando con la tattica del salame, una fetta alla volta, cosa che probabilmente faranno anche Ubs e Credit Suisse per evitare piani sociali e discussioni coi sindacati. Almeno 12mila posti di lavoro potrebbero scomparire nei prossimi anni, con un impatto particolarmente drammatico su una piazza più fragile come quella ticinese”.
Ferrara conferma che “in gioco non ci sono solo gli impieghi al Credit Suisse, ma anche quelli legati alle molte attività connesse. In questo senso, alcuni esperti stimano che i posti a rischio vadano moltiplicati per cinque. È una situazione senza precedenti, che richiede impegno e concertazione”. Come? “Ci siamo rivolti al Consiglio federale e alle autorità regolatorie proponendo una task force che coinvolga tutte le parti alla ricerca della soluzione migliore. Chiediamo che quando si parla di operazioni così importanti si tenga conto delle conseguenze per i dipendenti”.
A livello cantonale, è il Movimento per il socialismo che sollecita l’esecutivo con un’interrogazione. Si teme che “ancora una volta chi ci andrà di mezzo saranno i salariati di Credit Suisse, i piccoli risparmiatori e pure i cittadini le cui necessità sociali saranno messe in secondo piano”. Per questo si auspica “che il Consiglio di Stato cambi radicalmente posizione e intervenga in modo offensivo al fine di evitare l’ennesima ondata di licenziamenti nel settore bancario e la chiusura di filiali e strutture bancarie che, ancora una volta, andrebbero a colpire in modo importante regioni periferiche come il Ticino”.
Come se non bastasse, per il professor Rossi “è legittimo temere un impatto negativo sull’economia reale, almeno nel breve e medio termine: che si tratti di famiglie che devono rinnovare un’ipoteca o di piccole e medie imprese che vogliono finanziare attività e investimenti, il rischio è che l’accesso al credito risulti ancora più costoso e difficile. Questo perché – accanto alla generale tendenza al rialzo dei tassi d’interesse – la riorganizzazione, la ristrutturazione e l’eventuale scorporo di attività per salvare il salvabile di Credit Suisse finiranno a loro volta per scaricare i costi su chi domanda un prestito. Inoltre è possibile che la nuova entità non sia più disposta a concedere alcuni crediti, in particolare a una parte delle Pmi interessate, preferendo altre attività quali la gestione di grandi patrimoni. Dunque, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta di credito andiamo verso una ‘stretta’, un peggioramento delle condizioni di finanziamento che a sua volta preannuncia un forte rallentamento dell’attività economica e degli investimenti produttivi. Ciò colpirà pure numerose imprese nel settore edile, a seguito della minore crescita del volume di mutui ipotecari”.
Il tutto senza dimenticare le possibili sbandate dovute a un abuso della propria posizione di mercato: “Nell’ottobre del 2008 – ricorda sempre Rossi –, quando era Ubs a trovarsi in difficoltà, si era deciso di impedirne l’acquisto da parte di Credit Suisse per evitare la creazione di un unico monopolista. Oggi si ignora questo problema, ma il rischio è quello di creare una banca non solo troppo grande per fallire e troppo grande per essere salvata, ma addirittura troppo grande per essere gestita, visto che con oltre centomila impiegati diventerà ancor più impossibile sapere cosa fanno i vari uffici sparsi nel mondo, non fosse altro che per rispettare le regolamentazioni sul piano nazionale e su quello internazionale. Inoltre, ancora una volta, il potere negoziale di un tale colosso sarà fortemente sbilanciato nelle contrattazioni coi lavoratori”.