L'analisi

Il tradimento di Israele

“Questa legge è un atto di barbarie e un tradimento dello Stato nei confronti dei suoi cittadini”

10 agosto 2018
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“Questa legge è un atto di barbarie e un tradimento dello Stato nei confronti dei suoi cittadini”. Le parole sempre misurate e meditate di David Grossman non possono essere equivocate: la legge che definisce Israele lo Stato-nazione del popolo ebraico ha un contenuto di discriminazione e di assertività nazionalista tale da tradire e minacciare la storia e l’onore stessi del Paese.

Grossman, scrittore che parla all’umanità, porta nella propria biografia l’eredità della millenaria vicenda ebraica e la più breve storia di Israele. Ha anni sufficienti per avere conosciuto i suoi drammi e averne patito le tragedie, come la morte del figlio sul fronte libanese, nel 2006.
Non è cioè uno di quegli “ebrei che odiano sé stessi” o esponente della diaspora agiata al riparo dalla polvere e dal conflitto, o un imboscato imbelle, che sovente i lettori ci accusano di esibire come schermo di un pregiudiziale sentimento anti-israeliano, o, peggio, di un antisemitismo malamente mascherato.

È una voce minoritaria, è vero, e tuttavia cristallina di un Israele consapevole delle minacce esistenziali alle quali è sin dalla nascita esposto, ma anche del potenziale autodistruttivo di una politica che nega i diritti e le ragioni altrui in virtù di un sentimento di potenza che si alimenta di sopruso in sopruso. Perché Benjamin Netanyahu, il suo governo e i parlamentari che li appoggiano lo fanno? si chiede Grossman. “Perché possono”. Perché la forza, la loro, è divenuta la misura del mondo.

E infatti non può sfuggire che la forzatura di Netanyahu si compie in una temperie storica nella quale i “nostri” vengono prima di tutti; in cui i vincoli di solidarietà vengono denunciati come debolezze insane o come cinismo ipocrita. Giovandosi dell’indispensabile sostegno di una Casa Bianca che all’intelligenza strategica ha sostituito il più grezzo linguaggio dell’esibizione muscolare. Non è forse un caso che l’approvazione della legge da parte di una Knesset egemonizzata dall’estrema destra sia giunta dopo il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale da parte di Donald Trump, ignorante e incurante del sopruso che questo atto certifica.
La rivendicazione opposta da molti “amici” di Israele, secondo i quali atti simili (nella stessa legge si dà risalto alla legittimità degli insediamenti in territorio “palestinese”) sono la mera presa d’atto di una situazione di fatto, è a sua volta una espressione del cinismo che nei nostri giorni si è sostituito all’usurato universalismo del “diritto internazionale”. Qui e altrove, naturalmente, ma qui con un sovrappiù di significati che nascono e a loro volta alimentano l’eccezionalità di un quadro unico al mondo. Complici la storia (Israele stesso, in senso stretto, è una eccezione storica) e soprattutto le fedi.

Dunque ha ragione Israele a lamentare una sorta di accanimento informativo e politico con cui si denunciano, enfatizzandole, sue politiche non dissimili da quelle di altri Stati, nei confronti dei quali vigono connivenza e ignavia. Ma è altrettanto vero che a Israele vengono consentite violazioni del diritto internazionale che ad altri Stati sono costate piogge di bombe e invasioni. Una eccezionalità che Netanyahu pretende di “sanare” attribuendone la causa all’esistenza di un diritto altrui (in questo caso dei palestinesi), e di conseguenza cancellandolo, nero su bianco.

Ma “uno Stato non elargisce diritti ai suoi cittadini, per la ragione che i diritti nascono con essi”. Ha dovuto ricordarglielo Benny Begin, deputato del Likud e figlio di quel Menachem, tutto fuorché pacifista, che firmò la pace con l’Egitto di Sadat.

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