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La diplomazia del ping Peng

Cina vs Usa: l’affare Peng Shuai, le Olimpiadi di Pechino, i 50 anni dal disgelo creato attorno al tennistavolo. Le vecchie strategie di due vecchi nemici

Peng Shuai in campo agli Us Open (Keystone)
25 novembre 2021
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Ping pong, tennis e relazioni diplomatiche funzionano esattamente nello stesso modo. Si butta la palla nel terreno dell’avversario sperando che non ti ritorni indietro. Cambiano solo le dimensioni del campo.

Impossibilitati dall’ideologia e dalla propaganda incrociata a vedere cosa ci fosse oltre la rete, nel 1971 Stati Uniti e Cina s’inventarono la diplomazia del ping pong pur di dare una sbirciata nel campo dell’altro. Tutto comincia da un incontro tra il fortuito e il pretestuoso (la verità - come spesso accade - starà nel mezzo) ai Mondiali di tennistavolo in Giappone: l’americano meno yankee della squadra, il figlio dei fiori Glenn Cowan, dopo aver perso il suo incontro al primo turno, perde anche tempo dentro il palazzetto di Nagoya. L’autobus della nazionale riparte e lui resta appiedato.

In attesa di capire come rientrare in hotel, incontra il campione cinese Zhuang Zedong. Finirà che Cowan - allergico alle regole (o il profilo perfetto a cui farle aggirare) - con quel suo aspetto da campeggiatore di Woodstock avvezzo all’autostop, salirà sul bus cinese e si scambierà un regalo con il campione tanto caro a Mao. Zhuang omaggerà Cowan con un ritratto su seta dei monti Huangshan, l’americano, che non aveva nello zaino niente di meglio di un pettine, troverà il modo di consegnare al suo nuovo amico una t-shirt con la bandiera della pace e la scritta “Let it be”, hit dei Beatles con appena un anno di vita.


Nixon e Mao sulle racchette da ping pong. Era il 1972 (Wikipedia)

È l’inizio di una collaborazione proficua a livello sportivo e politico e anche una storia perfetta da dare in pasto ai media, a tal punto che Hollywood, anni dopo, dentro quella storia ci infilerà Forrest Gump, aggregandolo alla squadra di Cowan.

Di nuovo ai ferri corti e incapaci di immaginare nuove strade, Usa e Cina hanno riesumato in questi giorni la diplomazia del ping pong per il cinquantennale, come se la politica internazionale si potesse trattare come certi vecchi dischi di successo che, nell’anno dell’anniversario, vengono ripubblicati in edizione speciale.

Mentre sull’asse Washington-Pechino volano gli stracci praticamente su tutto, dal caso Taiwan al patto per il clima, i vecchi nemici mettono in piedi “La diplomazia del ping pong 2.0”, iscrivendo al Mondiale di Houston due coppie di nazionalità miste. Funziona così, quando non vedi un futuro ti rifugi nel passato, senti la musica di quando eri giovane, chiami le ex: quasi mai è la soluzione. Perché nel frattempo sei cambiato tu, la ex e tutto quel che ti gira intorno.

L’affaire Peng Shuai, che tiene banco da quasi un mese, ne è la dimostrazione: nel mondo che fu e che non è più, mai un’atleta di successo avrebbe denunciato per abusi un uomo di potere, tantomeno in Cina. La tennista, prima è sparita, poi è ricomparsa nella modalità sceneggiatura sotto dettatura e sotto dittatura, con una bislacca – ma non inspiegabile – complicità del Cio, che con la Cina ha un grosso appuntamento in ballo, le Olimpiadi invernali del 2022, praticamente dietro l’angolo: si giocano soldi e credibilità. Anzi, ormai solo i soldi.

Gli Usa, intanto, chiedono spiegazioni su Peng Shuai e ai Giochi minacciano il boicottaggio light, solo diplomatico, con gli atleti in gara (e quindi mesto e insapore, un po’ come tutte le cose light). Poi tuonano su abusi e diritti civili, come se non avessero plotoni di allenatori e politici con processi a carico per violenza sessuale, come se i diritti civili in America non fossero un nervo scoperto. Ieri hanno invitato la contesa Taiwan al summit per la democrazia. Buttano la palla di là, poi si vedrà. La diplomazia del ping Peng.


La Diplomazia del ping pong 2.0 a Houston (Keystone)

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