Economia

Un sonoro ceffone per Wall Street

Gli investitori non avevano compreso che, con un’inflazione al 7% e un’economia al galoppo, un tasso d’interesse quasi a zero sarebbe un sacrilegio

Il presidente della Fed, Jerome Powell

Apriti cielo. Alla pubblicazione delle «Minute» della Fed, il 5 gennaio, dalle quali appariva chiaro che Jerome Powell e compagni erano intenzionati ad alzare i tassi ben prima del previsto e ben oltre le aspettative, e iniziare pure a vendere i titoli in portafoglio dopo giugno, il rendimento dei Treasury è volato all’1,8% e Wall Street ha preso un sonoro ceffone. Tutta colpa della Fed, si direbbe. Ma, possibile che gli investitori non avessero compreso che, con un’inflazione al 7% e un’economia ancora al galoppo, un tasso d’interesse quasi a zero sarebbe un sacrilegio? Semmai dovrebbe stupire che la banca centrale ci abbia messo così tanto a capirlo.

La storia

In realtà la Fed s’era resa conto della situazione già al Fomc di metà dicembre e le Minute si riferiscono a quell’incontro. E, dai successivi commenti di alcuni suoi esponenti, s’intuiva piuttosto bene che l’aria stava cambiando. Gli investitori più attenti l’avevano avvertito giorni prima. Difatti, il rendimento del titolo decennale comincia a salire rapidamente dopo il 28 dicembre e passa dall’1,48% all’1,65% del 4 gennaio. La borsa, probabilmente condizionata dalla perenne euforia dei piccoli operatori, resta invece sui massimi fino alla pubblicazione delle minute. Poi s’affloscia di colpo e in sole 4 sedute arriva a perdere un massimo del 4,5%: si vede che il ribasso aveva ampiamente scontato tutte le cattive notizie. Ai 4.726 punti di mercoledì scorso, l’S&P500 era più alto del picco relativo di novembre quando, però, il rendimento del Treasury era più basso di ben 40 centesimi e il mercato s’attendeva tutt’al più due rialzi dei tassi Fed nel 2022. Siccome oggi se ne aspetta quattro, di cui due entro giugno, si direbbe che, per Wall Street, rendimenti e tassi d’interesse sono ininfluenti quando crescono.

Eppure gli analisti delle maggiori banche d’investimento sembrano non farsi illusioni. Jan Hatzius di Goldman Sachs proietta ora un rialzo dei tassi ogni trimestre fino a luglio-settembre 2024: in tutto 11 strette, con il Fed fund al 2,5-2,75%. E quattro rialzi quest’anno stimano gli uomini di Bank of America e Deutsche Bank, mentre Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan, dice che sarebbe «stupito di vederne solo quattro», in netto contrasto con il perenne ottimismo di Marko Kolanovic, suo global strategist.

Se si avverassero le previsioni di Goldman, dovremmo vedere fra due anni il rendimento del Treasury decennale ben oltre il 2,75% del tasso Fed, a meno che non sopravvenga uno stallo dell’economia che nessuno vuol prendere in considerazione. E allora com’è possibile che il Treasury renda meno dell’1,8% e che Wall Street continui a macinare record? Mai andare contro la Fed è stato per anni il motto del mercato. Ma, quell’adagio funziona solo quando la banca centrale è amica, ossia quando la sua politica monetaria resta ultraespansiva. Se questa si inasprisce, si grida invece al policy error, l’errore politico della Fed. E di errore, infatti, già si parla a Wall Street e gli operatori sembrano non dare troppo peso alle previsioni dei grandi analisti.

Fino alla grande crisi del 2008-09, un tasso d’interesse ritenuto neutrale, in un’economia in crescita del 6% e un’inflazione ancor più alta, sarebbe stato fissato a ben altri livelli. Ma, dopo 13 anni di quantitative easing e tassi a zero, il mondo è cambiato. Per il mercato, il neutral rate è dove sta adesso o poco sopra e i mercati contano più dell’economia. Ve lo immaginate, dicono tanti operatori, un tasso Fed al 2,5% con gli stati di mezzo mondo indebitati come mai, con una banca centrale che non acquista più i titoli copiosamente emessi dal Tesoro e con i fondi pensione strapieni di bond spazzatura?

Se Powell e soci non si rendono conto del pericolo, ci penseranno i mercati a consigliare maggior senno alle banche centrali. Come s’è visto nel recente passato, il potere ricattatorio del mercato è stato determinante nel condizionare l’azione della Fed, ancor più delle pressioni del governo.

Per ora, la ventilata stretta monetaria della Fed sembra essere accolta con velato scetticismo da Wall Street e dal mercato obbligazionario, come se nulla di serio si profilasse. La reazione, mercoledì, ai dati sull’inflazione di dicembre, in linea se non addirittura peggiori delle attese, ha qualcosa di paradossale. Prezzi al consumo in crescita del 7% e del 5,5% quelli senza energia e alimentari (dal 4,9% di novembre) devono essere apparsi buona cosa o quantomeno scontati, cosicché l’indice S&P è subito salito e il rendimento del Treasury sceso all’1,71%.

Se la Fed ha impiegato otto mesi per correggere la tesi di un’inflazione transitoria, il mercato persevera nel ritenerla tale. Peng Cheng, analista quantitativo di Jpm, ha calcolato che tra il 7 e l’11 gennaio la clientela al dettaglio abbia acquistato azioni per oltre mille miliardi di dollari a seduta e che alla loro frenesia si debba il forte recupero di Wall Street.

Ma, è difficile credere che questo entusiasta esercito di piccoli operatori si sia buttato, mercoledì, a comprare, oltre le azioni, pure Treasury e a vendere simultaneamente dollari: le tipiche attività dei trader professionisti, oltre s’intende quelle delle materie prime che, ai numeri dell’inflazione, hanno invece reagito al rialzo. La storia dei privati investitori che condizionano il mercato non regge, se non si considera la continua complicità dei grandi operatori istituzionali. Se questo è il clima che si respira a Wall Street, il buy the dip (compra sui ribassi) è destinato a funzionare a oltranza e non sarà un Fed Fund sopra la presunta soglia dell’1% a fine anno a poter cambiare le cose.

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