Economia

Federal Reserve, colomba o falco?

Dopo l'ultima riunione in realtà non è cambiato nulla, anzi le cose vanno meglio di prima

(Keystone)

Per giorni gli investitori si sono chiesti se la Fed nell’ultima riunione (Fomc) del 16 giugno sia stata colomba o falco: ossia amica dei mercati, come quasi sempre è stata da oltre un decennio, oppure abbia creato un inaspettato fattore complicazione. A distanza di qualche seduta, pare abbiano stabilito che non è cambiato nulla, anzi che le cose vanno meglio di prima: perché il rendimento del Treasury a 10 anni (all’1,49%) è tornato esattamente com’era prima, il Nasdaq ha segnato un nuovo massimo, imitato dall’S&P 500. In realtà qualcosa è cambiato, ma ai mercati, che non amano le sfumature e pretendono messaggi chiari e semplici, l’ultimo Fomc, il comitato esecutivo della Federal Reserve, è apparso un non evento.

Le stime

In effetti, la comunicazione della Fed è stata tale da generare un po’ di confusione. Jerome Powell e soci hanno dichiarato che i tassi d’interesse non saliranno nei prossimi due anni: ma i dot plot, ossia i puntini che i vari membri della banca centrale segnano nel grafico delle previsioni, segnalano che due rialzi dei Fed Funds sono possibili già nel 2023 e quattro membri stimano il primo addirittura nel 2022. Hanno reiterato la tesi che l’inflazione non rappresenta un pericolo, perché è fenomeno perfettamente temporaneo: ma ora prevedono un rialzo dei prezzi (Pce) del 3,4 per cento quest’anno, un punto percentuale più di quanto s’aspettassero tre mesi fa, e hanno ritoccato al rialzo anche le stime del 2022 (2,1 per cento) e del 2023 (al 2,2 per cento). Hanno cercato di rassicurare i mercati che di una riduzione del quantitative easing (tapering) se ne parlerà ben più avanti: ma intanto s’è capito che i vari membri ne hanno discusso seriamente.

La reazione a caldo è stata coerente con una lettura negativa del Fomc: rendimenti dei Treasury in rialzo e borsa in ribasso. Poi non s’è capito più nulla. Il rendimento del titolo decennale è sceso di 13 centesimi al minimo dell’1,36%, come a dire: nessun rischio d’inflazione o di tapering anticipato. Invece Wall Street ha proseguito al ribasso con una lieve correzione (complessivamente poco oltre il 2%): questa volta, s’è davvero mostrata «falco» la Fed! Ma, nella sola seduta di lunedì, la borsa aveva già cancellato le perdite, lasciando intendere che i rialzi possono proseguire imperterriti.

Le reazioni

Si son date diverse interpretazioni sulle contrastanti reazioni del mercato obbligazionario e di quello azionario. Una di queste, larvatamente avanzata da Goldman Sachs, è che gli investitori non abbiano voluto credere al messaggio poco condiscendente della Fed. Si sarebbero, insomma, messi in testa che la banca centrale si stesse erroneamente muovendo, come avvenne verso la fine del 2018, quando Powell fece trapelare l’idea di ulteriori inasprimenti monetari e il mercato gridava all’errore.

 Aveva ragione quest’ultimo, poiché qualche mese dopo la Fed decise invece di ridurre i tassi d’interesse.

Ma l’analisi di Goldman ci svela un aspetto psicologico ancor più interessante: gli investitori, alla luce dell’anemica ripresa seguita alla grande crisi del 2008, sarebbero piuttosto scettici sulla forza della ripresa americana, se venisse meno il decisivo sostegno della politica monetaria. Per questa ragione, gli economisti di Goldman non sono certi che la Fed alzerà i tassi prima del 2024, anche a dispetto dei toni meno rassicuranti emersi nell’ultimo incontro del Fomc.

Forse li aumenterà, scrive l’editorialista del Wall Street Journal, ma con la prudenza necessaria per non turbare troppo i mercati: perché gli investitori sono diventati troppo sensibili alla politica della Fed e sono convinti che l’economia reale verrebbe compromessa da tassi più alti. Soprattutto, occorre aggiungere, verrebbe messa in discussione l’esuberanza del mercato azionario, perché è noto come agli investitori stiano più a cuore le sorti di Wall Street che quelle di Main Street (l’economia reale).

Il precedente

La storia del Taper Tantrum del 2013 (ossia il capriccio di voler ridurre gli acquisti di titoli) è al riguardo assai istruttiva: un episodio che ebbe conseguenze drammatiche, secondo l’enfatica ricostruzione degli operatori.

In realtà non accadde nulla di così grave. Crebbe fortemente la volatilità dei mercati, poiché gli investitori, alle prime avvisaglie di una riduzione del Qe, reagirono piuttosto furiosamente nel tentativo di condizionare (o ricattare) la Fed, con il rendimento del Treasury balzato dall’1,7% al 3% in 8 mesi e con Wall Street che aveva segnato quattro modeste correzioni del 4-5%. Ma a fine 2013, ormai ufficializzata la riduzione del Qe, l’S&P500 si ritrovò più alto del 30% rispetto a un anno prima e il Treasury aveva già intrapreso la via della discesa che si concluse 18 mesi più tardi con un rendimento finito all’1,36%.

 Il tapering fece tutt’altro che male all’economia che, tra il 2014 e il 2015, crebbe quasi del 6% e tantomeno danneggiò la borsa che, dall’aprile 2013 a oggi, è cresciuta del 175%, ossia di oltre il 13% medio annuo. Tuttavia c’è da scommettere che il pretesto del tapering, condito con gli affettati timori d’inflazione, continuerà a tormentare gli operatori quantomeno fino alla tarda estate, quando (finiti i sussidi) dovrebbe apparire un po’ più chiaro il quadro dei nuovi occupati e l’andamento dei salari; e i numeri dell’economia, affievolite le distorsioni dell’effetto base, potrebbero offrire maggiori indicazioni sulla sostenibilità della ripresa e sulla crescita degli utili societari.

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