Fuga generale mentre infuria la battaglia a Khartoum
Il personale dell’ambasciata svizzera in Sudan ha lasciato il Paese devastato dalla guerra. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri Ignazio Cassis su Twitter. E l’ambasciata nella capitale sudanese Khartoum, già danneggiata dagli scontri, è stata chiusa.
I sette membri del personale e cinque accompagnatori hanno potuto essere evacuati in collaborazione con Paesi terzi, ha indicato in serata il Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae). Due sono in viaggio verso l’Etiopia, mentre gli altri sono stati evacuati a Gibuti grazie al sostegno francese. Nel suo tweet Cassis ha in particolare ringraziato la Francia per l’aiuto.
Il Dfae ha aggiunto che la Svizzera non sta organizzando un rimpatrio dei cittadini elvetici dal Sudan, ma sta collaborando con i suoi partner per “aiutarli al meglio in circostanze difficili”. I cittadini svizzeri interessati possono chiamare la helpline. Informazioni aggiornate in funzione della situazione sul posto sono regolarmente pubblicate su Internet.
L’agenzia di stampa francese Afp aveva riferito in precedenza, facendo riferimento a fonti governative, che la Svizzera aveva chiesto aiuto alla Francia per l’evacuazione dei suoi cittadini.
La Francia avrebbe evacuato un totale di circa 100 persone fino al tardo pomeriggio di ieri.
Sempre ieri, il Ministro degli esteri italiano Antonio Tajani ha annunciato l’evacuazione di circa 200 civili, di cui 140 italiani, diversi cittadini svizzeri (senza però quantificare esattamente, si parla di decine), alcuni dipendenti della Nunziatura Apostolica e una ventina di cittadini europei.
Stando al Dfae, sono circa un centinaio i cittadini svizzeri in Sudan. Serge Bavaud, capo della gestione delle crisi presso il Dfae, in un incontro con i media venerdì a Berna, aveva precisato che la Confederazione non ritiene che tutti siano intenzionati a fare le valigie, anzi. Molti di essi hanno la loro vita in Sudan e alcuni hanno la doppia cittadinanza. Fino a venerdì solo una decina di persone aveva in effetti espresso la volontà di andarsene.
Il caos in Sudan, già teatro di un colpo di Stato militare nel 2021, è scoppiato fra le unità dirette dai due generali più potenti del Paese. All’origine, la rivalità politica fra Abdel Fattah al-Burhan, capo del Consiglio sovrano e quindi de facto capo di Stato, e il suo vice, il filorusso Mohamed Hamdan Dagalo, alla guida del gruppo paramilitare Forze di supporto rapido (Rfs).
Lo scenario però è talmente critico e mutevole che gli Usa hanno dovuto chiudere la propria ambasciata ed evacuare il personale diplomatico con un aereo militare. Lo stesso ha fatto il Regno Unito.
In un’operazione poi abortita, un francese è stato ferito da un cecchino dei paramilitari. Ferito in un altro frangente anche un dipendente dell’ambasciata d’Egitto, Paese a rischio di coinvolgimento nel conflitto. Pure Germania, Belgio e Olanda hanno annunciato l’inizio delle operazioni di evacuazione di loro cittadini dal Sudan dopo che sabato l’Arabia Saudita era già riuscita a rimpatriarne 91.
A Khartoum inoltre sono stati visti incolonnarsi alla volta di Port Said decine di veicoli bianchi delle Nazioni Unite e molti autobus nonostante la tregua umanitaria di tre giorni annunciata venerdì sia stata violata anche nelle ultime ore fra l’altro con raid aerei delle Forze armate.
Appare quindi sempre più incompleto il più recente e attendibile bilancio di sangue, quello annunciato dall’Oms venerdì scorso, che indicava almeno 413 morti, tra cui nove bambini, e 3’551 feriti.