memorie dal 2014

La rivoluzione da dentro. Una guerra nata 9 anni fa

Il racconto dei giorni di Euromaidan, il caos, il fermento, i ruoli ambigui di troppi e la speranza tradita di molti. Che cosa resta oggi di quel periodo

Sacro e profano a Maidan nel 2014
(Davide Pambianchi)
24 febbraio 2023
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Era la fine di aprile del 2014 quando insieme al collega fotogiornalista Davide Pambianchi partii per Kiev. L’idea era di raccontare la rotta delle badanti, le loro storie, le donne che per diventare parte delle nostre famiglie perdono pezzi delle loro. Capire cosa vivessero e percepissero dell’Ucraina, dopo la rivoluzione di Euromaidan e l’inizio di quella che si stava trasformando in una guerra civile. Tutto era partito da una conversazione con Olga, un ex ingegnere civile che aveva accompagnato mia nonna Silvana alla fine della sua vita: temeva che sua figlia Liubov, a Chernivtsi, si sarebbe persa in inutili manifestazioni invece di finire gli studi. Parlando di ciò che stava accadendo nel suo Paese, l’impressione era che ne sapesse quanto noi, se non meno.

La rotta delle badanti

Di lì a qualche settimana prendemmo un biglietto di sola andata per Kiev. Un autobus che compie un’infinità di tappe, fermando in centri commerciali, città di provincia e stazioni di periferia. Non luoghi italiani, che gli italiani spesso non abitano più, almeno non in prevalenza, o che spesso conoscono meno degli immigrati. Il viaggio dura 48 ore, trasporta esseri umani e ogni genere di cose: non di rado capitava che ci fosse una persona ad attendere un pacco, nel mezzo di una strada che attraversava una pianura interminabile. L’autista fermava il mezzo, leggeva un nome, consegnava lo scatolone e il tragitto proseguiva. Altro che Amazon.

Una volta arrivati nella capitale ci trovammo immersi in un caos post rivoluzionario, una mobilitazione permanente che sembrava non voler cessare. I moti di piazza erano nati contro la corruzione, contro l’abbandono del percorso di avvicinamento all’Unione europea e l’annunciato nuovo abbraccio con Mosca. Si erano risolti con la cacciata del presidente filorusso Viktor Yanukovich, scappato nottetempo dopo aver dato l’ordine di sparare sulla folla. Quello stesso Yanukovich già sospettato di aver beneficiato dell’avvelenamento del rivale elettorale Viktor Yushchenko. Quel Yanukovich, per qualcuno vittima di un golpe, ricomparso in Bielorussia alla fine del febbraio 2022, all’indomani dell’invasione russa, pronto a riproporsi alla guida del governo dell’Ucraina "denazificata" dalle bombe di Putin.


Le barricate (Davide Pambianchi)

Chi comanda?

In quella primavera del 2014, Kiev e il suo cuore Majdan Nezaležnosti (Piazza Indipendenza) erano un contesto caotico e pieno di fermento. Migliaia di persone continuavano ad affluire nella capitale, provenienti dal resto del Paese. Accampate in tende, o in uffici pubblici occupati, non avevano nessuna intenzione di ritornare da dove erano venute. Molti negozi di abbigliamento si erano riconvertiti alla distribuzione di equipaggiamento militare. La polizia, responsabile di una repressione feroce nell’autunno precedente, sembrava quasi fosse evaporata, sostituita da milizie popolari, alcune ultranazionaliste, altre semplicemente sgangherate. Nei weekend l’ex residenza di Yanukovich, dotata di zoo privato, era diventata meta di tour organizzati, che avevano l’obiettivo di smascherare l’opulenza del precedente regime.

Non si capiva davvero chi comandasse, anche se in alcuni momenti affiorava la netta impressione che le autorità seguissero la situazione dell’ordine pubblico in modo discreto, comunque non così da lontano rispetto a come poteva sembrare. L’impressione era che una fetta di Paese, soprattutto le classi medio-alte, avrebbe voluto ritornare in fretta alla normalità, ma questo non era possibile.

Una nuova minaccia incombeva a Est. Il governo nato dalle proteste di piazza, da un lato avrebbe forse voluto sbarazzarsi volentieri di parte degli attivisti più radicalizzati, ma non lo poteva dire apertamente; dall’altro, quegli stessi militanti potevano diventare una risorsa, nel caso in cui in Donbass le cose fossero precipitate, cosa che poi è accaduta. Silenziosamente, alle porte di Kiev e di alcune altre città, si parlava dell’apertura di centri di addestramento militare, sul cui finanziamento aleggiava il mistero. Le milizie erano disarmate, ma era chiaro che all’occorrenza sarebbero state formate e spedite al fronte.

Quella nostra esperienza, senza che fosse inizialmente previsto, divenne un documentario. Il titolo, "Lost in revolution", nacque dall’impressione generale che ci lasciarono i frammenti di storie e di vite: ci ricordavano una rivoluzione che aveva perso la strada di casa, esistenze che vivevano un tempo sospeso.


Emma e Nero, due protagonisti del ricordo di Maidan (Davide Pambianchi)

Passammo qualche settimana insieme ad alcuni di questi gruppi, in una condizione che in circostanze belliche si potrebbe definire di embedment. Un’esperienza molto interessante, perché consente di conoscere una realtà dall’interno, ma che per un giornalista deve essere ben chiarita al suo lettore: il racconto, inevitabilmente, è uno sguardo soggettivo, visto da una sola parte.

A guidarci era Valentin, un ex poliziotto che si era licenziato poco prima dell’inizio delle proteste. Aveva aderito con entusiasmo alla rivoluzione di Euromaidan sperando, come tanti, di cambiare l’Ucraina. La nostra strada incrociò quella di Emma, una giovane madre che aveva lasciato gli studi di giurisprudenza per vestire la divisa della paramedica militare, ed Evgen, un ex autore televisivo che ora era un membro delle milizie, che tutti chiamavano con il nome di battaglia di Chornyy, il "Nero".

Corruzione e potere

C’erano già tutte le contraddizioni che poi sarebbero esplose otto anni più tardi, con l’invasione brutale ordinata da Vladimir Putin: il sentore di una rivoluzione tradita, in cui avevano sperato in tanti, e che non aveva scalfito i mali profondi del Paese, le diseguaglianze, la corruzione politica e amministrativa diffusa, il potere degli oligarchi, la pervasività della criminalità economica e organizzata; un vicino ingombrante e aggressivo, abituato a considerare l’Ucraina uno Stato a sovranità limitata; lo scollamento tra due metà di una stessa popolazione, quella più europea e quella più russa, una divisione che spesso alberga all’interno delle famiglie, quando non nelle medesime persone; una guerra strisciante a Est e in Crimea, dove tra gli indipendentisti erano comparsi soldati senza distintivi. Li chiamavano "omini verdi", inchieste giornalistiche indipendenti hanno dimostrato quello che allora pensava chiunque fosse sul campo, e cioè che erano soldati russi.


Davati alla casa di Yanukovich (Davide Pambianchi)

Il dibattito ideologico sul nazismo e sulla sua eredità storica era già molto acceso, così come sulle ingerenze straniere, russe o americane, a seconda di interlocutori e punti di vista. C’erano, e hanno avuto un ruolo, i battaglioni filonazisti, ma alle elezioni del 2019, quelle che hanno portato all’inaspettata elezione di Volodymyr Zelensky, il principale riferimento di quel blocco ha preso il 2%. Un dato di realtà da cui dovrebbe partire qualsiasi analisi seria.

‘Bassa intensità’

In questi anni, concentrata su altri conflitti, la comunità internazionale ha provato ad archiviare quella guerra a "bassa intensità", i suoi 14mila morti, e gli stessi problemi si sono ripresentati 8 anni dopo su una scala più ampia, sanguinosa e spaventosa. Viene ricordato poco, ma l’inizio della guerra in Donbass è coinciso con la nascita dell’Isis. Di fronte a questa nuova emergenza la realpolitik ha imposto di trovare un accordo in fretta tra Oriente e Occidente. La Russia, in questo scacchiere, è diventata un alleato. Kiev una vittima annunciata degli equilibri geopolitici.

In questo ultimo doloroso anno di guerra, mi è capitato spesso di pensare alle persone incontrate in quei giorni. Con alcuni siamo rimasti in contatto. C’è chi ha vissuto in città bombardate, chi ha lasciato il Paese e anche chi non c’è più. Valentin non è più tornato in polizia e si arrangia da allora facendo vari lavori. Emma non ha più ripreso gli studi, ha avuto un secondo figlio e continua a prestare servizio come paramedica. Chornyy, nel 2015, è morto nel Donbass, colpito da un mortaio, mentre era arruolato nel battaglione Aidar, indicato da alcuni osservatori internazionali come responsabile di crimini di guerra.

Ricordo chi ci diceva già allora che non c’era alcuna guerra civile, ma che a far la guerra era un altro Stato, la Russia, e che Putin non si sarebbe fermato, prima avrebbe invaso l’Ucraina, poi chissà. Ricordo il tono, come di chi prova a convincere interlocutori che in fondo non ci vogliono davvero credere. L’idea di democrazia degli attivisti ucraini era permeata di idealismo, e ciò che chiedevano sopra ogni cosa era la garanzia di una protezione militare. Concetti difficili da comprendere e da condividere davvero per un europeo, che è abituato a dare per scontata la fallibilità di un sistema democratico, il diritto al dubbio, il compromesso che alla fine evita sempre il conflitto.

Guardarsi indietro

Ricordo le illusioni di chi pensava, o sperava, che l’inasprimento del conflitto con la Russia avrebbe provocato un intervento militare della Nato. E anche la preoccupazione dei realisti del campo occidentale, da Kissinger all’ambasciatore Sergio Romano, preoccupazioni espresse in seguito anche da Papa Francesco, con l’ormai nota espressione della Nato che è andata "ad abbaiare ai confini di Mosca".


Fuoco per sigarette e molotov (Davide Pambianchi)

L’aiuto del blocco atlantico, seguito all’ingiustificabile aggressione russa, è stato fondamentale per aiutare gli ucraini. Ma, come era ovvio già allora, è stato dispiegato cercando di preservare un delicato equilibrio: l’Alleanza atlantica non solo non aveva alcuna intenzione di scatenare una guerra mondiale, ma, come ci raccontò una fonte militare, aveva studi di scenario allarmanti, che mostravano come le retrovie fossero completamente scoperte: mentre una parte di Ucraina sperava di entrare sotto l’ombrello militare occidentale, la Nato si domandava come difendere i Paesi baltici, che dalle simulazioni interne avrebbero resistito al massimo tre giorni a un’invasione russa.

Ricordo anche la guerra di disinformazione, una nebbia che anticipava profeticamente la guerra. Una battaglia che si combatteva su social e siti, permeati dalla propaganda e da una crescente polarizzazione delle posizioni. Spesso circolavano notizie false: alla vigilia del 9 maggio, giorno della vittoria contro il nazismo, le milizie avevano ricevuto un allarme. Si parlava di battaglioni paramilitari filorussi, come quelli avvistati in Crimea, pronti a compiere "una provocazione", nel cuore della capitale. Eravamo nel quartier generale dei militanti di Euromaidan, in un grand hotel occupato. A un certo punto ci rendemmo conto che, con l’innalzamento delle soglie di sicurezza, eravamo molto meno disposti a correre rischi, per non dire di peggio, di ogni altra persona che ci circondava, e per questo a notte inoltrata ce ne andammo in giro per la città rinunciando volentieri alla "protezione".

C’è un pensiero che mi opprime dal 24 febbraio 2022: l’Europa, la nostra Europa, e forse ognuno di noi nel suo piccolo, ha ballato sul ponte del transatlantico, ha ignorato la tragedia che si avvicinava lenta ma inesorabile. Nulla di ciò che è accaduto è avvenuto all’improvviso, niente era imprevedibile.

Condivido l’opinione di chi pensa che al Cremlino temano più la democrazia e il benessere economico europeo dei missili Nato. Questa è la vera grande colpa contestata e mai perdonata all’Ucraina. Ciò che non è chiaro è come intenda rispondere l’Ue, né cosa voglia fare da grande: la Nato, a cui partecipa, non è un esercito europeo; e non sempre basta volere la pace per ottenerla. Ci sarebbe bisogno di un soggetto in grado di impersonare un ruolo politico e diplomatico autorevole e indipendente, in grado di far cessare il conflitto. Ma questa voce manca.

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