Responsabile dell'assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica è ora condannato al carcere a vita. Chiamava le sue capre come i diplomatici occidentali
Ratko Mladic chiamava le sue capre con i nomi dei politici occidentali che disprezzava e chiamava se stesso Dio. Distribuiva cioccolatini ai bambini e poi gli andava ad ammazzare i genitori. Era il Macellaio di Bosnia, il Boia di Srebrenica, l’uomo che ordinò di fare fuoco su Sarajevo assediata all’urlo di “bruciategli il cervello”, sapendo che non era il numero di morti a contare. La capitale bosniaca andava annichilita nello spirito, fiaccata fino a toglierle ogni speranza con la paura e il suono continuo dell’artiglieria pesante.
Se negli anni della guerra fratricida nell’ex Jugoslavia c’era un massacro in corso da parte dei serbi di Bosnia, lui - come minimo - c’era. Il più delle volte lo guidava.
Mladic porta la guerra con sé da sempre, fin nel nome di battesimo. Guerra in serbo-croato si dice “rat”. In quella parte di mondo, tanti bambini nati come lui durante la Seconda guerra mondiale, venivano chiamati Ratimir, che vuole dire letteralmente “guerra e pace”. Ma la pace, evidentemente, non faceva per lui. E quindi, Ratko. Nato in un paesino di campagna nel 1942, nel 1945 era già orfano di padre, un partigiano ucciso dagli Ustascia croati.
Mladic al processo (Keystone)
Il suo luogo di nascita, Bozanovici, è un piccolo villaggio, ma anche un piccolo manuale di quel che erano e spesso continuano a essere i Balcani: mentre Mladic era nel grembo materno, Bozanovici era parte del Regno di Jugoslavia, quando lui nacque era nello Stato-fantoccio croato messo in piedi da nazisti e fascisti. Ha attraversato la Jugoslavia di Tito e oggi è formalmente Bosnia, ma soprattutto Repubblica Srpska, l’entità a maggioranza serba che si sente più legata a Belgrado che a Sarajevo.
La guerra, in mezzo a cui è nato e a cui non si è mai sottratto, segna anche l’ultimo capitolo della vita di Mladic, condannato definitivamente all’ergastolo per genocidio e crimini contro l’umanità. Lo hanno deciso i giudici del Tribunale dell'Aja, che ha confermato in appello la condanna del 2017. Una sentenza definitiva che non ammette ulteriori ricorsi. Fino a ieri mattina, i legali e i parenti di Mladic erano fiduciosi: puntavano a un’assoluzione piena nonostante le migliaia di testimonianze contro di lui. Perfino i suoi stessi diari, usati come prove, erano contro di lui. Lì c’è - nero su bianco - tutto il suo odio etnico, e quel senso di rivalsa mai sopito per l'antico dominio in quelle terre dell’Impero Ottomano. Per lui i bosniaci erano semplicemente “i turchi”. Detto in senso dispregiativo, ovviamente.
Con Karadzic nel 1993 (Keystone)
Ci sono voluti trent’anni per condannarlo definitivamente per quel che ha fatto. Nel 1991, nei ranghi di quella che ancora era l’Armata jugoslava, già combatteva contro i croati. Nel maggio del 1992 fu lui a tagliare acqua ed elettricità a Sarajevo. Diventato nel frattempo Capo di Stato Maggiore dell’esercito della Repubblica Srpska di Bosnia, sarà lui il responsabile militare di quel che accadde a Srebrenica nel luglio del 1995: 8’000 morti. Il primo genocidio d’Europa dopo la barbarie nazista.
Del terzetto che ha dominato la Serbia e incendiato i Balcani negli anni Novanta mancava un verdetto definitivo solo nei suoi confronti. Il presidente serbo Slobodan Milosevic è stato trovato morto in carcere nel 2006 mentre era in attesa di processo; il leader politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic, è stato condannato nel 2019 a 40 anni di carcere con le stesse accuse che oggi sono valse l’ergastolo a Mladic. E ora si trova in prigione nell'isola di Wight, nel Regno Unito.
La prima condanna ai suoi danni arrivò già nel 1995, dal Tribunale internazionale per i crimini in Jugoslavia, l’anno dopo c’era un mandato di cattura con un taglia di 5 milioni di dollari messa dagli americani. Inizialmente, sotto la protezione di Milosevic, riuscì a vivere a Belgrado senza troppi affanni, visto perfino allo stadio durante una gara della Nazionale di calcio. Lo avvisteranno un po’ ovunque, a Mosca, in Grecia, in Montenegro. Riuscirà ogni volta a far perdere le tracce. Si sa solo che ha passato del tempo nello stesso bunker che fu di Tito, ad Han Pijesak, nella “sua” Republika Srpska. La sua cintura di fedelissimi che lo proteggeva da tutto e tutti si sfalderà pian piano una volta che la Serbia si metterà a cercarlo sul serio. Lo troveranno nel 2011 in un villaggio a nord-est di Belgrado: si faceva chiamare Milorad Komadíc. Ma era Ratko Mladic. Lo confermerà un test del Dna.
Dieci anni dopo, a 78 anni, l’ex generale in disarmo ha seguito con le cuffie la lettura del lungo dispositivo della sentenza. Ha la giacca scura e la cravatta azzurra, accanto a lui due agenti della sicurezza. La comunità internazionale esulta, la federazione croato-musulmana di Bosnia vede - alla fine - almeno un po’ di giustizia per le atrocità e le sofferenze patite. Dall’altro lato di un confine che c’è, ma non c’è, in Republika Srpska si celebra un eroe nazionale e si getta discredito su un “processo-farsa voluto dagli americani”. Su uno striscione esposto a Banja Luka, il capoluogo della Bosnia dei serbi, si legge: “Non riconosciamo le sentenze del Tribunale dell'Aja, tu sei l'orgoglio della Republika Srpska”. A dimostrare una volta di più come nei Balcani si sia riusciti a perdere sia la guerra che la pace.
Le preghiere di una donna di Srebrenica a cui è stato ucciso il marito (Keystone)