Estero

Chi è Lukashenko, padre padrone della Bielorussia

Presidente dal 1994, iniziò il primo mandato impallinando mongolfiere. Ora sequestra aerei. Ascesa di un figlio di contadini che amava trattori e fisarmonica

Aleksander Lukashenko e il suo enorme mappamondo (Keystone)
26 maggio 2021
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Si fa chiamare Batka, che vuol dire papà. Come ai tempi degli zar. E papà ha un vecchio conto in sospeso con chi vola: nel 1995, quando era presidente da poco più di un anno, diede la caccia a tre mongolfiere entrate nello spazio aereo bielorusso durante una gara internazionale, la Gordon Bennett Cup. Quell’anno la competizione si svolgeva nella vicina Polonia e gli organizzatori si erano premurati di avvisare di potenziali sconfinamenti. I militari bielorussi se ne infischiarono, abbatterono una mongolfiera – in cui restarono uccisi due americani – e ne fecero atterrare altre due, arrestando i quattro a bordo. Minsk non si scusò mai per quell’episodio e ha sempre rifiutato indennizzi o risarcimenti.

Dietro questo arroccamento c’è lui, Batka, ovvero Aleksander Grigorievich Lukashenko, nato il 30 maggio del 1954 non si sa bene dove, sebbene in Bielorussia ai tempi dell’Urss. È un mistero l’identità del padre, che non ha mai conosciuto, è un mistero il luogo di nascita: la madre, al tempo, lavorava in una fabbrica di Orsha, lui ha detto di essere nato ad Aleksandriya, poco più a sud, ma - almeno per gli occidentali e secondo alcune sue biografie - risulta essere nato in un altro villaggio: Kopys.

Un'infanzia contadina

Lukashenko non ha mai voluto dare troppe informazioni sulla sua infanzia, ricordando solo di essere cresciuto tra piante e animali, facendo lavori umili e mungendo mucche. A pesargli è stata soprattutto la mancanza del padre, che i ragazzini del paese sottolineavano con la spietatezza del gruppo ribattezzandolo “bastardo”. Il giovane Aleksander cresce studiando agraria e facendosi largo tra i giovani comunisti del Komsomol, dove crescono i futuri quadri del partito unico. Ha inizialmente sogni modesti: guidare trattori e suonare la fisarmonica. Man mano che fa carriera, però, capisce di poter ambire a qualcosa di più. Dopo cinque anni nei ranghi militari, finirà a dirigere un sovchoz, una di quelle aziende agricole in mano allo Stato sovietico dove i contadini venivano regolarmente stipendiati in cambio dell’intero raccolto. Lì, Lukashenko comincerà a familiarizzare con la base del suo futuro elettorato, operai e contadini, apprendendo la lingua dei lavoratori, un misto di russo e bielorusso che si rivelerà negli anni un’arma fondamentale per farsi riconoscere come un uomo del popolo.


Lukashenko versione hockeista (Keystone)

Tra i più intraprendenti manager statali della sua fetta di Unione Sovietica, Lukashenko crea una terza via, a metà tra le due anime di un Paese sull’orlo dell’implosione. Siamo agli inizi degli anni Novanta e come in tutta l’Urss ci si divide tra spinte separatiste e aficionados del Cremlino, una nomenklatura altolocata con cui lui, figlio di una contadina, non ha accesso. Gli indipendentisti duri e puri battono sul tasto della piccola grande Bielorussia, lui, sprezzante dice che “nulla di grande potrà mai essere espresso in bielorusso” e flirta - cautamente - con gli uomini che potrebbero prendere il potere una volta finita l’era Gorbaciov.

La terza via

Entra nel Soviet bielorusso con un partito che è un’acrobazia linguistica, soprattutto a quei tempi e in quei luoghi, Comunisti per la democrazia. Sa che quell’essere dentro, ma allo stesso tempo fuori dall’impero sull’orlo del collasso non potrà che favorirlo. Nel 1991 è l’unico a votare contro la dissoluzione dell’Urss, riuscendo a liberarsi di una parte dei suoi nemici (i filorussi duri e puri) senza sporcarsi le mani. L’occasione di far fuori anche la componente nazionalista arriva nel 1993, quando per i suoi toni accesi e i suoi discorsi populisti viene scelto a dirigere la Commissione anti-corruzione. Da quella poltrona infilzerà uno a uno tutti quelli che potrebbero impedirgli di arrivare alla presidenza. Accuserà 70 persone, tutte sacrificate sull’altare di una nuova Bielorussia, la sua. Tra questi anche il presidente del Parlamento e il presidente provvisorio, Stanislav Shushkevich, dato per favorito alle elezioni del 1994.

Shushkevich fu accusato di aver rubato delle scatole di chiodi per la sua dacia. Sembra un’inezia in tempi in cui sparivano rubli a camionate, quei chiodi bastarono però per la sua crocifissione mediatica. Si presenterà comunque alle presidenziali, ma otterrà un misero dieci per cento. A vincere saranno ovviamente Lukashenko e il suo partito anti-corruzione: 45% delle preferenze al primo turno, 80% al secondo. Un plebiscito, non l’ultimo. Visto che “l’ultimo dittatore d’Europa”, come è stato definito a più riprese da emissari di Bruxelles e Washington, vincerà altre cinque volte, l’ultima l’anno scorso, restando ininterrottamente in carica dal 1994. A luglio saranno ventisette anni e non si vede la fine.


Con l'amata uniforme (Keystone)

L’ultimo dittatore d’Europa

Da allora ha prima allungato il mandato presidenziale da cinque a sette anni, poi ha cacciato dal Parlamento i deputati che non gli erano fedeli, semplicemente sostituendoli, ha lodato Hitler, litigato con il Comitato Olimpico Internazionale, stretto legami con Mosca come nessuno degli ex Paesi dell’Urss, riportato alcuni simboli sovietici a Minsk, battagliato con gli ambasciatori di Regno Unito, Francia, Italia, Usa, Grecia, Germania e Giappone accusandoli di cospirazionismo. Ha perfino candidamente ammesso di aver truccato al ribasso i voti di una sua elezione per aver numeri più compatibili con standard europei. Ha cambiato le regole in corsa, imprigionato avversari politici, licenziato in diretta tv uomini dell’apparato che non gli servivano più. Per lui l’Unione Europea è “uno zoo”, gli avversari politici “anatre a cui torcere il collo”. Nel delirio di onnipotenza si mette a litigare con Mosca sulle forniture del gas, mostra i muscoli e cerca di creare una terza via pure qui, creando un’alleanza basata anche sul traffico di armi: dentro ci sono Paesi come Siria, Libia, Iraq, Libano, Costa d’Avorio, Sudan. Diventa amico del venezuelano Chávez, firma accordi col dittatore peruviano Fujimori. Il Cremlino intanto gli fa capire chi comanda, lui sbraita quanto basta per non far cadere il suo mito in patria e si rimette a fare il bravo alleato.

Nel frattempo la Bielorussia viene sempre più emarginata, paragonata alla Corea del Nord, la dittatura con il Presidente Eterno. Un’idea, quest’ultima, che non sembra dispiacergli.

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