il reportage

‘Cerchiamo la libertà, troviamo gelo e calci in faccia’

Tra i migranti che provano ad attraversare la frontiera tra Bielorussia e Polonia passando attraverso i boschi

Migranti nella terra di nessuno tra Bielorussia e Polonia (Keystone)

All’inizio è pungente, poi umido. I vestiti si bagnano e il corpo non mantiene temperatura costante. Il freddo uccide. Prima i più deboli. Nella notte tra giovedì e venerdì sono stati trovati due morti congelati: una donna e un ragazzo di 14 anni. Non sono i primi, tantomeno gli ultimi. Sabato mattina è stato ritrovato dalla polizia il corpo senza vita di un ventenne siriano. Secondo diversi report indipendenti dall’inizio della crisi sono almeno 13 i decessi per assideramento nei boschi al confine tra Polonia e Bielorussia. Probabilmente sottostimati. Ong e giornalisti non hanno accesso all’area, non c’è modo di confutare quanto dichiarato dalle autorità.

Pasti liofilizzati e sacchi a pelo

“Da lunedì scorso abbiamo dovuto ridurre al minimo i nostri interventi” occhi chiari e parlata sicura Anna Chmielwska è una delle attiviste di Oceleine Foundation. Operano sul confine, portano aiuto ai migranti nascosti nei boschi. Hanno un piccolo magazzino a Sokólka: coperte, sacchi a pelo, pasti liofilizzati, ma soprattutto scarpe e calzettoni. “I contadini e i residenti ci segnalano il passaggio di un gruppo. Noi con una chat Telegram condividiamo la posizione e portiamo quello di cui potrebbero aver bisogno”. Oltre ai beni di prima necessità l’organizzazione cerca di dare tutte le informazioni legali, così da preparare i migranti all’incontro con la polizia. “Sono in Europa e hanno diritto di chiedere asilo politico, se lo vogliono fare”.


I militari davanti ai migranti in fuga (Keystone)

Da agosto il governo polacco ha allestito delle recinzioni con il filo spinato sul confine, imponendo una zona militare per i primi tre chilometri dopo la frontiera. Qui il bosco è fitto. Alberi longilinei verso il cielo, in terra fango, foglie, rami secchi. Poi chiazze di colore: una maglia rossa, una busta di plastica, due passi più avanti c’è lo spallaccio di uno zaino, una suola di una scarpa e ancora dell’immondizia. Da fine primavera migliaia di persone sono passate da questa foresta. Le regole sono semplici: una volta superato il confine cammini e ti nascondi. Più lontano vai dalla frontiera, più possibilità hai che se ti ferma la polizia non ti riporti dall’altro lato.

Il venditore di alcolici

“Parlo con la mia famiglia, ma non posso fare una videochiamata. Le mie figlie sono piccole, non possono capire”. La faccia di Youssef Attalah è blu, viola, gialla, i suoi occhi rossi. Si vedono a malapena le pupille. È stato colpito, ha perso i sensi ed è stato colpito ancora. Ha 37 anni, nato a Damasco in una famiglia cristiana. Ha iniziato a lavorare in Libano, aveva poco più di vent’anni. Nel 2006 scoppia la guerra tra Hezbollah e Israele. Torna a casa e apre un’azienda: “Ho comprato dei macchinari in Cina e ho iniziato a produrre soft drink alcolici. Un gruppo islamico mi ha minacciato per il mio lavoro. Era haram (proibito)”.

Con la famiglia si sposta a Homs, dove c’era una comunità cristiana attiva e florida. Ma ben presto la situazione si complica. Altre minacce, più serie. Youssef sceglie un profilo basso. Per alcuni anni durante la guerra civile lavora in banca, ma gli islamisti non dimenticano. “Nonostante la paura di restare in Siria, non volevo rischiare di morire per arrivare in Europa”. Quando scopre della nuova rotta, in aereo fino alle porte dell’Unione, sceglie di partire. “La polizia bielorussa ci ha indicato la via per il confine. Ma quando ho visto i boschi e sentito il freddo ho avuto paura. Eravamo seduti in terra e ho detto agli agenti che volevo tornare indietro: a Minsk. Uno di loro mi ha dato un calcio in faccia. Ho sputato due denti. Mi ha colpito di nuovo, sono svenuto”.

Salvati dallo zucchero

L’uomo non ha ricordi precisi, un amico gli ha raccontato che il poliziotto ha continuato a prenderlo a calci. Quando si è ripreso è stato costretto a iniziare la marcia nella foresta. “Non vedevo quasi nulla, ho delle costole incrinate, non potevo portare nemmeno lo zaino”. Non riusciva a stare al passo del gruppo con cui viaggiava, solo un amico resta con lui. Mette una mano sulla sua spalla e continua a camminare. “Non avevo il senso del tempo, il freddo e il dolore non mi facevano pensare. Non avevamo da mangiare. Abbiamo trovato lo zaino abbandonato di un altro profugo. C’erano delle zollette di zucchero, penso mi abbiano salvato la vita”.

Dopo giorni vagabondando nei boschi decidono di consegnarsi alla guardia di frontiera polacca. Le condizioni di Youssef sono gravi e la polizia lo porta in ospedale. Ha due fratture facciali, il setto nasale va operato d’urgenza. A prendersi cura di lui è Arsaln Azzadin, direttore sanitario dell’ospedale di Bielsk Podlaski, una cittadina a pochi chilometri dal confine.

Il dottore è originario di Erbil, 40 anni fa si trasferì in Polonia per studiare medicina. “Quando ho visto i primi migranti arrivare, dopo aver attraversato i boschi, mi sono sentito morire. Erano curdi come me”. Lo studio di Azzadin è l’ultima stanza dopo il corridoio del Pronto soccorso. Il suo telefono squilla di continuo. Pazienti, decisioni da prendere, ma anche la comunità irachena che chiede il suo aiuto. “Ogni giorno dall’inizio della crisi – spiega il medico – mi collego con la televisione della mia regione e racconto qual è la situazione qui”.

I visti di Lukashenko

Da quando Alexander Lukashenko ha iniziato a concedere visti turistici ai cittadini di diversi paesi del Medio Oriente la voce è corsa sui social. Ci sono gruppi privati su Facebook, chat criptate su Signal e Telegram, dove sedicenti agenzie di viaggio offrono pacchetti con visto, aereo e infine anche il passaggio nelle mani di un trafficante per arrivare in Polonia o addirittura fino in Germania. Ma come per tutte le rotte migratorie quando una voce diventa una notizia nascono variazioni e flussi sempre più grandi.

Per esempio se non si riesce a fare un visto bielorusso, si può chiedere quello russo e poi da lì è facile arrivare in Polonia con un passeur. “Per bloccare il flusso – conclude Azzadin – bisogna spiegare a chi vuole partire i rischi che corre: le botte della polizia, il freddo e anche la morte solitaria nei boschi”. Prima di tornare al suo lavoro fa partire sul suo cellulare le immagini girate poche ore prima all’aeroporto di Damasco: una lunga fila di famiglie in coda per comprare i biglietti. Destinazione Minsk.


La folla si accalca al posto di frontiera di Kuźnica (Keystone)

I sopravvissuti di Bialystok

A mezz’ora di auto dal confine c’è Bialystok, 300mila abitanti. Città crocevia per chi arriva dalla Bielorussia. C’è anche un piccolo centro di accoglienza. Quaranta posti letto, in caseggiato ad angolo accanto alla stazione del treno. Questi profughi si considerano i più fortunati in questo girone di dannati. La Polonia accoglie poco e ancor meno presta assistenza ai migranti in difficoltà. Quattro letti a castello attorno a un tavolo rettangolare. C’è a malapena lo spazio per aprire la porta. Ma gli uomini nella stanza sono sorridenti come fossero ospitati nella suite di un grande albergo. “Sono qui da qualche giorno. Sono pulito, riposato e soprattutto inizio a non avere più freddo”. Il più anziano del gruppo è Khaled, 52 anni, di Deera a sud della Siria. Dopo anni di guerra civile ha scelto di portare la sua famiglia in Giordania. “Ho fatto quel che ho potuto, ma non è bastato”.

Il mese scorso ha letto su Facebook l’apertura di una nuova rotta. “Niente barche, né traversate per le montagne. Un aereo, un visto e in meno di due giorni l’Europa. Ho portato con me mio figlio”. Moustafa, 14 anni, è sdraiato sul letto, cellulare e cuffie. Fa finta di non vedere suo padre emozionarsi. Serio come solo un adolescente sa essere. “Fino al confine con la Polonia eravamo tranquilli – racconta il padre – ma abbiamo dovuto attraversarlo di notte. Al buio, senza nemmeno una luce”.

Respingimenti e separazioni

La polizia polacca respinge tutti i migranti che trova nella zona di confine. Vengono rimandati con solerzia, sovente anche troppa, in Bielorussia. “Quella notte ho perso Moustafa. Ci siamo separati senza volerlo. Non potevo chiamarlo, non sapevo come cercarlo”. Se fosse arrivata la polizia sarebbe stato portato oltre il confine e riunirsi con il figlio sarebbe stato difficile. Dopo due giorni, con l’aiuto di alcuni attivisti polacchi, i due sono stati riuniti.

La porta della loro camera dà su un corridoio lungo, dipinto male, color panna. L’ultima stanza in fondo, dal lato opposto a quella di Khaled, Moustafa e gli altri sei, c’è una camera con quattro donne. Tre di loro non possono camminare. Sono tutte curde irachene. Non vogliono dare i loro nomi, due di loro si nascondono nel cono d’ombra del letto a castello. Hanno le gambe piagate, bendate, sanguinanti. La terza mostra i piedi distrutti dai geloni. Tagli profondi, pelle molle e grumi di sangue. “Sono qui da sola, ho perso mio figlio, sono tre giorni che non so nulla di lui”. I suoi due figli maggiori sono in Germania, da sette anni. “È troppo tempo che non li vedo, da quando sono partiti. Hanno provato a fare i documenti per me e per loro fratello, ma non c’è modo. E adesso sono qui sola, ho perso l’unico figlio che mi rimaneva”. Il telefono del ragazzo è spento. Forse è ancora nel bosco, in attesa che qualcuno lo vada a prendere. I trafficanti mandano una posizione Gps dove aspettarli. Possono presentarsi dopo poche ore, ma ci sono casi di famiglie bloccate dalla promessa di un passaggio per oltre una settimana. I profughi sanno cosa li aspetta e cercano di caricarsi sulle spalle tutto il necessario per resistere. In molti casi non è abbastanza.


Un falò per resistere al gelo dei boschi (Keystone)

Al di là del filo in spinato, in Bielorussia, gli oltre duemila rifugiati stanno iniziando a costruire un campo, il primo passo per una crisi di lunga durata. L’esercito polacco guarda. Sono 20mila i soldati schierati da Varsavia a controllare il confine. Sarà molto dura attraversarlo, ma non impossibile. E questa possibilità alimenterà la speranza di molti. Intanto da Minsk continuano ad arrivare altri migranti. Scendono dall’aereo e le autorità li invitano, sovente li aiutano a raggiungere la frontiera.

Le sanzioni a Minsk

Lukashenko è un giocatore d’azzardo. Ha puntato tanto, probabilmente troppo su questa crisi. Vuole costringere l’Unione europea a negoziare con lui, come un nuovo Erdogan. Ieri a Bruxelles hanno ratificato le nuove sanzioni contro Minsk, le prime erano entrate in vigore dopo la repressione delle proteste per le elezioni dell’agosto 2020. Nel frattempo Varsavia annunciava ufficialmente la costruzione del muro anti-migranti.

Il dittatore bielorusso non ha amici in Europa, ma ha un grande partner a est: Vladimir Putin. Per tutto lo scorso fine settimana l’esercito di Minsk è stato impegnato, a poca distanza dal confine, in delle esercitazioni militari. Con loro c’erano anche i paracadutisti russi. Secondo il Ministero della difesa bielorusso l’addestramento serve a preparare i due alleati per rispondere rapidamente a minacce come quelle che si profilano “con l’aumento di attività militari vicino alla frontiera”. Per Lukashenko i profughi non sono vittime, ma armi. E le armi si usano sempre con altre armi.

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