Il rapporto di Amnesty International: preoccupano i silenzi di Cina, Corea del Nord e Vietnam. In Egitto triplicate le esecuzioni in un solo anno
Preoccupa la Cina, che non lascia trapelare dati ufficiali, spaventa la Corea del Nord, con i suoi silenzi oltre l’ultima delle cortine di ferro, e inquieta l’Egitto, con un’accelerata che fa porre più di un dubbio su chi lo governa e come. Ci sono Paesi in cui la pena di morte avanza, cresce, viene riscoperta, utilizzata in modo indiscriminato per controllare ogni forma di dissenso. Ma c’è un dato che sembra incontrovertibile, nei numeri, nei fatti e nella parabola statistica. E che dà speranza.
Nel 1945, anno di nascita delle Nazioni Unite, i Paesi in cui non era prevista la pena di morte erano una manciata: otto. Trentadue anni più tardi, nel 1977, quando Amnesty International iniziò la sua campagna globale contro le esecuzioni capitali, i Paesi che avevano mandato definitivamente in pensione il boia erano appena sedici. Nel 2011 diventarono 97, oggi sono 108. A voler essere ottimisti, sono ancora di più, se consideriamo anche quelle nazioni che non hanno ancora abolito ufficialmente la pena di morte, ma che da anni ormai non la applicano. Sommando tutti questi Paesi, ad oggi, arriviamo a 144. Questo e molto altro racconta il rapporto 2020 di Amnesty International, contofirmato dalla nuova segretaria generale, Agnès Callamard, insediatasi meno di un mese fa. Francese, ex relatrice speciale dell'Onu per le uccisioni extragiudiziali, durante il quale ha condotto indagini su questioni di grande rilievo internazionale, tra cui la morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi, Callamard, ha diretto - tra le altre cose - il progetto sulla Libertà di espressione globale alla Columbia University. Inizia i quattro anni a capo della Ong più grande del pianeta, presentando uno dei dossier in grado di illustrare come pochi il livello di umanità e compassione raggiunto (o negato) nel mondo: “Nonostante molti Paesi si ostinino con questa pratica, il 2020 è stato un anno positivo. Il Ciad ha abolito la pena di morte, e così il Colorado. Il Kazakistan ha preso impegni internazionali e formali e lo stesso percorso lo sta portando a termine Barbados. Il numero di esecuzioni continua a calare, portando il mondo sempre più vicino al giorno in cui consegnerà questa crudele, inumana e degradante punizione ai libri di storia”.
Callamard ricorda anche che a sostenere la moratoria chiesta dall’Onu sulla pena di morte sono ben 123 Paesi, numeri impensabili appena dieci anni fa: “La pressione su chi si ostina a mantenere la pena capitale è sempre più forte. Ma abbiamo visto che serve. La Virginia è il primo Stato del sud degli Stati Uniti a chiamarsi fuori. E anche se c’è molto lavoro da fare a livello federale, a Washington ci sono leggi sul tavolo che aspettano solo di essere firmate”. Il caso degli Stati Uniti resta sotto i riflettori, emblematico quanto schizofrenico. La più grande democrazia del mondo, o almeno così è come gli americani amano definirsi, resta l’unico Paese del continente americano in cui proseguono le esecuzioni: 17 nel 2020, cinque in meno dell’anno precedente. Ma nonostante i passi avanti nei singoli Stati, sotto la presidenza Trump sono riprese le esecuzioni a livello federale: in appena cinque e mesi e mezzo, dieci sono state le condanne a morte che hanno riportato indietro l’orologio della storia.
Ci sono però anche segnali positivi: sono 18 le condanne complessive inflitte dai giudici statunitensi contro le 35 del 2019, quasi la metà. L’unico altro Paese americano a comminare una condanna a morte nell’anno appena concluso è stata la piccola Repubblica caraibica di Trinidad e Tobago.
A preoccupare Amnesty International è l’Asia, con i grandi buchi neri rappresentati da Cina, Corea del Nord, Siria e Vietnam che si rifiutano di collaborare negando di divulgare ogni cifra a riguardo. Al netto di questi numeri che restano segreti, Amnesty ha registrato 483 esecuzioni nel mondo, il 26% in meno del 2019, ben il 70% in meno dell’annus horribilis 2015. Proprio l’Asia ha dato una mano in questo senso, visto che Paesi che avevano fatto ricorso al boia appena due anni fa si sono – almeno per ora – ravveduti: tra questi il Giappone, il Pakistan, Singapore e il Bahrein. La stessa cosa è accaduta in Sudan, in Africa, e nella contestatissima Bielorussia in Europa. Un trend simile, al ribasso, è stato registrato dalle condanne a morte: 1’477 (-36% sul 2019) suddivise su 54 Paesi, con numeri in diminuzione praticamente ovunque con due eccezioni: l’Indonesia, dove ci sono state 117 sentenze di morte (+46% sul 2019) e lo Zambia (119, +9%).
Amnesty segnala inoltre che l’88 per cento delle esecuzioni ha avuto luogo in soli 4 Paesi: Iran, Iraq, Egitto e Arabia Saudita. Tuttavia in Arabia Saudita e Iraq il crollo registrato fa ben sperare per il futuro (rispettivamente -85% e -50%), mentre a preoccupare, non solo per i numeri legati alla pena di morte è l’Egitto, che ha addirittura triplicato le esecuzioni. Quelle certificate sono 107: almeno 23 di queste sono legate a reati politici, confessioni estorte con torture e altri metodi violenti. Nei soli mesi di ottobre e novembre lo stato egiziano ha ucciso 57 persone (tra cui 4 donne). La pena di morte è usata largamente come metodo di soppressione per reati politici anche in Iran, ma mai negli ultimi anni si era vista una sproporzione anno su anno come quella avvenuta in Egitto. Un’escalation che, se confermata, potrebbe portarlo nel giro di un paio d’anni a essere il Paese con il più alto numero di esecuzioni al mondo, almeno tra quelli di cui si conoscono i dati.
In Asia, oltre a nascondere il numero di morti e condanne (nel mondo le persone in attesa di esecuzione sono almeno 28.567), si conducono uomini e donne al patibolo anche per reati che nulla hanno a che fare con gli omicidi volontari. In Pakistan si uccidono i condannati per blasfemia, in Cina e Vietnam quelli per corruzione, in una lunga lista di Paesi (che include Laos, Indonesia, Sri Lanka e Thailandia) si rischia il patibolo se si è invischiati in affari di droga.
Alle Maldive cinque minorenni all’epoca dei fatti sono stati condannati a morte, ricordandoci quanto può essere brutale uno Stato che tratta la vita delle persone con la stessa freddezza di un qualsiasi altro disturbo burocratico. Lo sapeva bene, in tempi in cui la pena di morte era molto più diffusa e praticata, Fëdor Dostoevskij, che ne “L’Idiota” scriveva così: “L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, tutta quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte e con cui è dieci volte più facile morire, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata”.