Due visioni opposte dell’America si misureranno nei prossimi mesi. A colloquio con Gianluca Pastori, professore dell'Università Cattolica di Milano
Siamo solo alle prime battute delle primarie democratiche per la scelta del candidato presidenziale, e le previsioni hanno una natura profetica più che profondità analitica, ma certamente i movimenti in corso nel partito e nell’elettorato democratico si stanno profilando in maniera abbastanza riconoscibile. L’irruzione di Pete Buttigieg sul proscenio sembra avere aggiunto un elemento nuovo al confronto, come viene definito sommariamente, tra destra e sinistra del partito: Joe Biden per la prima, e Bernie Sanders e Elizabeth Warren per l’altra. Il giovane sindaco di South Bend, Indiana, pare a molti un Biden con l’energia della giovinezza e il vantaggio dell’estraneità ai palazzi del potere di Washington, ammesso che vero vantaggio sia. E di qui a poco, farà irruzione sulla scena quel Michael Bloomberg, riccone ex sindaco di New York, una sorta di Trump democratico, secondo gli osservatori meno benevoli, con solo una maggiore maestria nel tenere a bada l’ego.
Mancano cinque mesi al termine delle primarie e poco meno di nove al giorno delle elezioni: i numeri non mancheranno.
Non credo che l’effetto durerà tanto a lungo, anche se Trump farà il possibile per amplificarne la durata. Ogni volta che vedremo la campagna languire da parte repubblicana, o se da parte democratica verrà lanciato qualche attacco particolarmente duro, l’argomento dell’impeachment e dell’assoluzione tornerà a galla. D’altro canto, già in Congresso vi sono state voci favorevoli non tanto a ignorare il voto di assoluzione (perché non sarebbe possibile), ma a mantenere la pressione sul presidente. Dunque sì, ne sentiremo parlare ancora.
Sì, e molto dipenderà da quale sarà il candidato espresso dalle primarie. Ma, chiunque sia, abbandonare il tema dell’impeachment a favore di argomenti più positivi potrebbe forse rivelarsi più efficace per la sua campagna.
A mio modo di vedere, sono vere entrambe le cose. Biden è un candidato vecchio, e su questo punto si è insistito molto nei mesi scorsi, Anche nei dibattiti dell’estate e dell’autunno 2019, questo argomento è tornato con insistenza. D’altro canto, proprio questo suo essere ‘vecchio’ è visto come un elemento rassicurante in molte frange dell’elettorato democratico. Se mi si passa l’espressione, Biden è l’«usato sicuro», e questo non è trascurabile.
D’altra parte, se si osservano i suoi indici di gradimento negli ultimi mesi, si vedrà un andamento decisamente altalenante: Biden è partito bene, è sceso, è tornato a crescere, è calato di nuovo all’epoca dell’Ukrainegate, e oggi è in evidente difficoltà. Certo, la dimensione dello scacco subito in Iowa non se l’aspettava nessuno. Difficoltà erano previste, ma non di questa misura. E i risultati delle primarie del New Hampshire non sono migliori. Qui, Biden (ma anche Elizabeth Warren) non sono riusciti a ottenere nemmeno un delegato. A questo punto, due partenze false rischiano di essere troppe anche per un veterano come Biden. Tanto più che il «Super Tuesday» è tra quindici giorni; e se anche in quell’occasione Biden dovesse andar male, la sua candidatura diverrebbe davvero problematica.
Buttigieg ha sicuramente il physique du rôle, per il resto ha due debolezze. In primo luogo è giovane. Esserlo è un atout in questo momento, ma lo sarebbe davvero se in gioco ci fosse, per esempio, un seggio al Congresso. Per la presidenza, essere ‘troppo giovane’ rimane un handicap.
In secondo luogo è il candidato con la minore esperienza politica. È stato sindaco, ma di una città tutto sommato «minore» come South Bend, Indiana. La sua esperienza è limitata e questo lo espone ad attacchi su temi come, per esempio, la politica estera. D’accordo che non è la politica estera l’argomento centrale di una campagna elettorale, tuttavia la poco esperienza è un elemento che, insieme con altri, concorre a intaccare la sua figura.
In ogni caso, Buttigieg gode di un sostegno in decisa crescita. Sorprendendo molti, è riuscito a mobilitare una grossa quantità di finanziamenti, e si sa quanto questi siano importanti nella corsa alla presidenza.
Direi, quindi, che Buttigieg è una sorta di misto di forza e di debolezza. E anche se non dovesse ottenere la nomination, il pacchetto di voti che potrà portare renderà il suo endorsement sicuramente importante.
Può essere, ma a questo proposito, vorrei aggiungere che stiamo facendo forse i conti senza un oste, e un oste di un certo rilievo come Michael Bloomberg. Bloomberg ha deciso di investire tutto nel Super Tuesday, senza sprecare energie e concentrando le risorse in una sola grande scommessa. Lui, con Biden e Buttigieg, è considerato uno dei potenziali candidati moderati. Si tratta di capire se Bloomberg, anziano quindi rassicurante, ricco, con esperienza politica ma non associato ai centri del potere di Washington, riuscirà davvero a erodere consenso sia dal lato di Biden (presentandosi come meno compromesso e meno ‘politicante’), sia da quello di Buttigieg, accreditandosi come persona ‘nuova’ ma non ‘troppo giovane’ e – soprattutto – abbastanza tranquillamente per gli elettori più conservatori.
La pluralità delle posizioni è sempre positiva: è segno di vitalità. In questo momento è però anche fattore di debolezza, perché i democratici hanno dinanzi un partito che – per ragioni di opportunismo, sicuro – sta solidamente insieme.
Il giudizio finale dipenderà molto da come questo pluralismo si saprà organizzare. Sinora la proposta espressa dai diversi candidati, si è strutturata in termini essenzialmente «negativi»: liberiamoci di Trump e della sua idea dell’America. Quella che sembra invece essere mancata è stata la capacità di trasformare questo rifiuto in un progetto condiviso. Ogni candidato ha una sua visione, accomunata a quella degli avversari dalla sola opposizione al presidente. In altre parole, quello che è mancato sinora è stato un confronto serio sugli aspetti propositivi di questa opposizione.
Molto probabilmente, sul fronte democratico assisteremo a un turn out molto forte, la partecipazione aumenterà, proprio in virtù del messaggio ‘mandiamo Trump a casa’. Ma questo potrebbe generare una partecipazione altrettanto forte – direi uguale e contraria – da parte repubblicana.
Ciò su cui concentrerei l’attenzione è, tuttavia, la presumibile polarizzazione delle posizioni: il vedere prevalere le ali dei rispettivi schieramenti: chi, da una parte vota «contro Trump» più che a favore di una certa proposta politica; e chi vota a favore di Trump per ostilità verso il candidato democratico «per la sua bandiera» più che per vera adesione alla proposta politica repubblicana.