La minoranza musulmana è perseguitata, nei campi di rieducazione fino a un milione e mezzo di persone. Se ne parlerà martedì con Amnesty
“Non si può costruire senza prima distruggere”, disse una volta Mao Zedong. I suoi emuli – primo fra tutti l’accentratore Xi Jinping – paiono seguirlo alla lettera quando si tratta di confrontarsi con le minoranze linguistiche e religiose. Come quella degli Uiguri nello Xinjiang, a nordovest del Paese: 11 milioni di persone sottoposte a un ampio programma di sorveglianza e rieducazione culturale, con tanto di campi di concentramento per riportare sulla ‘retta via’ i presunti soggetti radicalizzati: un milione, un milione e mezzo di persone vi sarebbe recluso. Il governo cinese dice che sono integralisti islamici, gli osservatori occidentali denunciano il tentativo di sradicare un’etnia e la sua cultura attraverso l’assimilazione forzata.
Ne parliamo con Gabriele Battaglia, collaboratore di Rsi, Radio Popolare e Internazionale, che da nove anni vive e lavora in Cina. Di questo tema tratterà anche martedì al primo Amnesty Apéro della stagione, la quinta degli incontri organizzati dall’Ong internazionale a Lugano. L’appuntamento è come di consueto allo Spazio 1929, in via Ciseri 3. Si comincia alle 19, modererà l’incontro il giornalista Rsi Nicola Lüönd.
Intanto va precisata una cosa: qui si parla di genocidio culturale, non fisico. Non si sta facendo quello che fu fatto agli ebrei o agli armeni. Ciò non toglie che nei campi di ‘rieducazione’ agli Uiguri venga fatto il lavaggio del cervello, per cancellare i segni della loro appartenenza religiosa e culturale.
Stando alla versione ufficiale, si tratta di centri nei quali gli Uiguri possono imparare un mestiere e seguire corsi di lingua e cultura ‘ufficiale’, allontanandosi così dalla radicalizzazione islamica. Le molte testimonianze parlano invece di una reclusione della durata di almeno sei mesi, durante la quale si possono subire arbitri e violenze, anche sessuali, e nella quale ci si ritrova anche solo perché si prega cinque volte al giorno e fuori dalle moschee ufficialmente riconosciute. Può bastare la soffiata d’un vicino, e ho conosciuto personalmente familiari di reclusi scomparsi nel nulla per mesi, dato che peraltro è anche difficile conoscere numero e collocazione dei campi.
Sì, vengono addestrati ai lavori più umili. Così potranno poi confluire nella grande massa di operai a basso costo che può essere sfruttata per continuare a far crescere l’economia. In questo modo, si perpetua anche la grande divisione sociale che vede gli Han in posizione di classe dirigente e mercantile dello Xinjiang, mentre gli Uiguri restano subordinati.
Ma la radicalizzazione islamica degli
In parte, è innegabile che la società uigura sia diventata sensibilmente più religiosa: ho conoscenti uiguri che abitano in Europa e mi raccontano di come anche le loro famiglie stiano diventando sempre più conservatrici. In questo contesto ci sono anche casi di infiltrazione islamica. E siccome nell’ottica di Pechino la radicalizzazione è figlia dell’ignoranza, la soluzione è nella rieducazione.
È il dilemma dell’uovo e della gallina. Direi che una situazione di grande difficoltà sociale ed economica potrebbe anzitutto avere creato la necessità di trovare rifugio, consolazione nella dimensione religiosa. In seguito, la repressione e la realizzazione di uno stato di polizia – check point con vere e proprie caserme mobili, riconoscimento facciale, sistemi di sorveglianza basati sull’intelligenza artificiale, una polizia sempre presente – può avere spinto a riaffermare ulteriormente la propria identità, per una forma di ulteriore autodifesa.
La fase più dura è cominciata con gli attentati dei primi anni Dieci, a bassa intensità rispetto a quelli vissuti in Europa e America, ma che hanno comunque colpito l’opinione pubblica; nel 2013 una famiglia uigura si è lanciata con l’auto sui pedoni in piazza Tienanmen, poi si sono susseguiti attacchi esplosivi e all’arma bianca in Yunnan e nella capitale dello Xinjiang Urumqi. Dopo decine di morti, il governo ha iniziato la lotta contro i ‘tre mali’: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. E si è affidato a Chen Quanguo, divenuto segretario locale del Partito comunista dopo avere messo il bavaglio alle proteste in Tibet.
È dal dopoguerra che Pechino persegue una politica al contempo di sviluppo e assimilazione. Anche la lingua uigura (di ceppo turco, ndr) è sempre più marginalizzata. Negli ultimi decenni è aumentata l’immigrazione di cinesi Han, che hanno occupato posizioni più ‘alte’ rispetto agli Uiguri, rimasti umili contadini. I contrasti quindi sono andati crescendo, anzitutto proprio per questo divario sociale. È da lì che vengono anche gli atti terroristici e la radicalizzazione. Paradossalmente, ora è l’apparato di polizia e controllo che viene usato come leva sociale: la prima linea poliziesca è costituita proprio da uiguri, che in cambio della promozione sociale e della sicurezza si comportano in maniera durissima.
Storicamente, con le minoranze la Cina ha sempre seguito fasi alterne: ‘bastoni’ e ‘carote’. È possibile che dopo la repressione arrivino investimenti e un tentativo di coinvolgere anche gli Uiguri nello sviluppo economico del paese. Alcuni colleghi mi hanno detto che ultimamente la situazione si starebbe relativamente rilassando, può darsi che il governo cinese