La recensione

‘Mein Fritz, il mio Leo’ al Sociale, buona la prima

Anche quando i temi si fanno questioni, e i pesi si fanno macigni, Saltamacchia e Traversi ne reggono il peso con padronanza e leggerezza

21 ottobre 2021
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Un salto indietro nel tempo di cent’anni a cercare relazioni tra due ‘isolani’, uno che sull’isola ci viveva per davvero, l’altro solo in un certo senso, ma entrambi affacciati sul mare della creatività, accomunati dalla passione per una scrittura piegata di frequente all’indagine dell’animo umano, anche e soprattutto nelle sue forme meno nobili. Produzione di casa, dove la casa è il Teatro Sociale di Bellinzona, la prima assoluta di ‘Mein Fritz, il mio Leo’, operazione di avvicinamento tra Friedrich ‘Fritz’ Dürrenmatt e Leonardo ‘Leo’ Sciascia, è andata in scena lo scorso mercoledì, primo atto della parte teatrale di un gemellaggio di centenari – Dürrenmatt è classe 1921 esattamente come Sciascia – che vede il Sociale coinvolto con il Centre Dürrenmatt di Neuchâtel.

La ricerca delle affinità tra i due, affidata a Margherita Saltamacchia e Anahì Traversi (su assist di Sonja Riva, dalla quale giunge l’idea) pare a tratti un frugare in soffitta – un prologo di foto d’epoca tutte al femminile, racconti di umanità e distacco, di senso di protezione e rinunce, vissuti e a volte patiti, dalla viva voce di mogli e figlie dei due scrittori – e a tratti un’indagine, visti risvolti giallistici delle rispettive carriere, i neon da sala dell’interrogatorio e vista la lavagna luminosa che sul palco, gestita a turno dalle due attrici e autrici dello spettacolo, regola tempi e luoghi del racconto, proiettando sullo schermo di fronte frammenti di vita umana e artistica. Sfilano così, appaiati e appaiabili, due gemelli separati alla nascita per quanto attiene alla scrittura e relativo piacere, ma accomunati da altri tratti evidentemente simili guardando a tutto il resto.

‘Mein Fritz, il mio Leo’ regala anche le voci dei protagonisti, amplificate da un vecchio riproduttore di cassette, altro elemento di scena che serve a connotare il centro della storia letteraria dei due scrittori, collocato tra i Settanta e gli Ottanta. E in questo rimbalzare di temi e intenti comuni, mettendo in dialogo (come si dice oggi tutte le volte in cui si è in più d’uno) ‘A ciascuno il suo’ dell’italiano con ‘Il giudice e il suo boia’ dello svizzero, ‘Mein Fritz, il mio Leo’ ha un divertente sussulto sulle note di Luis Bacalov, che per la versione cinematografica del poliziesco di Sciascia scrisse la colonna sonora: su ‘Samba’, evoluzione del tema portante di ‘A ciascuno il suo’, con la lavagna luminosa a far da sigla, il ballo di Anahì Traversi completa un omaggio al poliziesco che sa di sceneggiato televisivo o di b-movie. C’è anche del sangue sullo schermo, che una mano pulisce giusto in tempo per il cambio di scena (o per non essere scoperta).

La Svizzera come prigione e l’Italia prigione di Moro (e sullo schermo Don Gaetano Mastroianni in ‘Todo Modo’, che al Presidente Volonté tasta la voglia di potere); il futuro, tra la dichiarazione d’indipendenza di Sciascia e la ‘equazione’ democratica di Dürrenmatt; la giustizia come idea fissa per quest’ultimo e come ossessione per il siciliano, per il quale l’Italia, più che culla, della giustizia è tomba. Anche quando i temi si fanno questioni, e i pesi si fanno macigni, Saltamacchia e Traversi ne reggono il peso con leggerezza, in uno spettacolo che una volta oliato sarà ancor più bello. Quando poi, sulle note del ‘Silenzio’, a rimbalzare tra i due è la morte, lo fa con due originalissimi desiderata di Sciascia e Dürrenmatt sul ‘come vorrei morire’.

A chiudere col sole, siciliano, ci pensa Pepe Lienhard, svizzero. Ed è tre volte applauso. B.D.

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