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Una goccia di luce

Un mese di quotidiani nel mondo tra nero assoluto, colonie spagnole, ‘la ragusana Susan Sarandon’ e poveri passeri

Quasi nero
(Keystone)
29 febbraio 2024
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Quasi nero. Non è bello imbattersi in un articolo sul nero assoluto. Pensi alle implicazioni psicologiche e morali. Ai campi in cui l’essere umano lo trova in un attimo. Il giornale che stai sfogliando te ne dà molti esempi.

La ricerca del nero assoluto porta lontano ma non alla meta. Porta lontano anche la ricerca della ricerca: andar indagando da una foto a un articolo, a una rivista e altri articoli cosa cerchino gli indagatori. Ma stavolta non abboccherò. Tanto più che l’avvio per me è un altro: un oscurissimo rettangolo segnato da una parentesi, orizzontale, di grigio-bianco: la traccia di una luna crescente ritratta a Bali. La foto mi ricorda l’articolo sfiorato giorni prima.

Riferisce ‘Figaro’ che la rivista ‘Technè’ dedicherà due numeri a raccontare l’impossibile inseguimento, tra storia dell’arte e storia naturale, con le novità dalla scienza più tecnologica. Quest’ultima tramite il MIT – dove non arrivano gli altri, arriva il MIT quasi sempre –, a forza di lavorare sul carbone è arrivata al Blackbest Black: 99,995 di assorbimento della luce. E quel che manca non si otterrà mai.

La fotografia l’avevo trovata tra le ‘Pictures of the Day’ dell’‘Independent’, e se colpisce è per quel 0,005 di luce che non riusciremo mai a sottrarre, sul povero pianeta Terra, per quanti sforzi facciamo, dal nero più nero.

Leggendo un corsivo. Prenderò spunto specialmente da ‘La Vanguardia’, in questo numero. In spagnolo per “columna” si intende l’articolo d’opinione. In italiano diremmo “corsivo”, volendo usare una parola sola. Delia Rodríguez racconta, in una “columna”, cosa possiamo trovarvi: “Che ti dicano cosa succede o, ancora meglio, cosa ti succede. Dare il nome a una cosa, toglierle importanza poco dopo, trovare una frase illuminante, una sciocchezza ben detta, compiere la fantasia di comprendere l’altro per alcune righe, assistere a un felice esercizio di stile, che ti diano un poco di ragione e che te la tolgano, ti infondano la voglia di fare, aggiungere un luogo, un viaggio o un’idea al catalogo di novità dei tuoi capricci (...) trovare un argomento per discutere o la forza per rinunciarvi, assistere a un numero di magia col finale a effetto o senza, leggere giusto quella citazione, odiare per quattro parole, pensare che non siamo così estranei l’uno all’altro e che il mondo non ha che 2’200 battute spazi compresi, e quel che manca resta fuori: questo, più o meno, forse cerchiamo leggendo un corsivo”.


Keystone
L’antico vizio di cambiare le parole per cambiare le cose

Parliamo di parole. L’onda dei negatori istruiti. Afferrati a quello in cui credono oggi o domani per pura fede, adattando il proprio discorso a tali mobili dogmi. “Le colonie spagnole non erano colonie, ma viceregni, quindi la Spagna non fu colonialista”. L’antico vile vizio di cambiare le parole per cambiare le cose. E cominciare a parlare di sole parole. Sono a capo di musei, ormai, insegnano nelle università. E dicono e fanno quel che possono. Anche Justo Barranco, che per il quotidiano di Barcellona riferisce i termini del “dibattito”, fa quel che può in un resoconto non facile. Segue un elementare e doveroso accorgimento: riporto le affermazioni di tre o quattro di questi tizi e, nella seconda parte, alcune riflessioni di studiosi onesti. (Il contrario di quel che avrà fatto ‘El Mundo’). Io seguirò un secondo o terzo procedimento. Dar voce ai solo sventati (perché ciò che dicono ha conseguenze pesanti). E chiuderò con un’affermazione assennata, per non disperare.

Elvira Roca Barea, filologa e autrice di Imperiofobia e del colabrodo storico che segue: “Non si può considerare ogni espansione colonialismo. L’espansione d’Atene che si manifesta nella lega di Delo, è colonialismo? E quella delle 13 colonie nordamericane verso l’Ovest? Quando avviene quella dei regni iberici nel secolo XV non era stata ancora concepita la forma d’espansione vincolata alla rivoluzione industriale che è il colonialismo. Giuridicamente l’espansione spagnola è completamente diversa”. Guillermo Serés, direttore del Centro di Studi dell’America coloniale (!) dell’Università Autonoma di Barcellona: “Se colonia è volontà di ispanizzare un territorio, sì, c’è stata (...) ma se colonia s’intende solo come sfruttamento, no. Fu introdotta la stampa, la religione, la cultura, non si è mai imposta una lingua. Ci sono stati morti, sfruttamento, sì, ma prima stavano sotto la dominazione azteca”.

Ed ecco la chiusura, dell’antropologo Gustau Nerín. Se “una popolazione arriva da fuori e impone i propri modelli”, questo si chiama “colonialismo”. Praticato dalla Spagna con gagliardia simile anche in Marocco e in Guinea Equatoriale. “Mettere in dubbio che la Spagna fosse stata colonialista – aggiunge – rivela un doppio suprematismo: credersi superiori alle popolazioni delle terre invase; credersi migliori del resto degli europei”.

Povero passero (prima parte). Mentre addomesticavamo il cane altre specie ci si addomesticano intorno da sole. Tra cui il piccione. Constatato l’evento, ratifichiamo l’iniziativa battezzandolo “colombo domestico”. A volte camminano seguendo una linea retta, fiduciosi, verso una meta. Altre vi si avviano esitanti e a zigzag, con andate, mezzi ritorni e giri al largo. Nei due casi ci somigliano, come nell’abitudine di volare così poco. Anche noi, non abbiamo ristretto le nostre ambizioni a quelle che possono raggiungersi a piedi? Piacciono ai bambini e spiacciano ai cani, i proto-addomesticati. Se ti si avvicinano vedendo che apri un pacchetto, le briciole sono un pretesto o solo una delle ragioni: si annoiano, altro tratto umanissimo. Si diceva che gli animali non possono annoiarsi, per ragioni che dall’etologia entrano nell’ontologia, ma non è più vero.

Che la Spagna abbia mai colonizzato qualcuno, per gli scienziati nominati sopra, è da vedere. Sappiamo che è stata colonizzata da esotici volatili arrivati in nave, come animali da compagnia. Per esempio la “cotorra argentina” (parrocchetto monaco) e la “cotorra di Kramer” (parrocchetto dal collare). Ne scrive sulla ‘Vanguardia’ Sara Sans. I pappagallini che passano strepitando da un albero a quello vicino, in gruppo, che fanno una bella e inattesa macchia di colore, potrebbero raggiungere nel numero i piccioni. Che a Barcellona sono oltre 103’000 e sulla ricerca del cibo, con i rivali parrocchetti, non c’è gara. Il paziente piccione, però, sa dove si trova almeno uno dei “300 grans alimentadors” della città. Gli scriteriati di buon cuore, che parevano una specie a rischio o estinta, anche loro.


Keystone
La ragusana Susan Sarandon

Province. La “ragusana Susan Sarandon”, leggo in un titolo. L’attrice americana ha un nonno della provincia siciliana, per cui presiede ogni tanto al premio ‘Ragusani nel mondo’, ricorda ‘Ragusa Oggi’. Ora immagino e vedo una piazza italiana generica, non conoscendo quelle di Lucca, e la stessa attrice che sorride salutando: un altro ramo della sua famiglia è lucchese, ricorda il ‘Corriere fiorentino’. Alla radio arrivano dai giornalini online queste scoperte genealogiche, dai quali le prendono i quotidiani detti “maggiori” quando il passaggio non è inverso. Restringersi sotto il campanile è una difesa dal globo che vuole schiacciarti. E ognuno si difende come può.

Seguire i quotidiani che giudichi migliori è la via più desiderabile, buona, utile e anche incoraggiante. Dal che si deduce che seguire gli altri non è indifferente ma sgradevole e inutile, indesiderabile e scoraggiante. Sfogliando ‘Le Parisien’ credi di trovare chi sa cosa, trattandosi di Parigi, e ti pare il ‘Corriere adriatico’ coi nomi in francese. Ciò che accade solo a Parigi lo racconta ‘Le Monde’. Ma si può essere di provincia senza essere provinciali. Sulla “Voz de Galicia” ho trovato una difesa degli anziani nelle case di cura competente e commovente, che non ho dimenticato. È firmato da un medico in pensione. I giornali di provincia danno spazio agli scrittori di provincia. E certe cose, e con un certo stile sparito altrove e che ritrovare è incredibile, sanno scriverle soltanto loro.


Wikipedia/Life is strange2
Cotorra argentina

Povero passero (seconda parte). Le specie autoctone sono diminuite del 35% in otto anni. Quelle esotiche sono cresciute del 40%. Di 15 delle esotiche, 11 sono della famiglia dei parrocchetti. E queste, con il piccione, rendono difficilissima la vita del verdone e del cardellino, del verzellino e del fringuello, del merlo e del passero, che si nutrono a terra come loro. Negli otto anni citati (2015-2022) la popolazione dei passeri è più che dimezzata. Ecco perché gli “alimentatori” che rovesciano sacchi di mangime ogni giorno si possono dire scriteriati. Un rimedio mi sento di abbozzarlo: disseminare i parchi di foto di passeri e verzellini, merli e fringuelli, verdoni e cardellini, scrivendo cosa rischiano e a causa di chi.

Dar cibo compulsivamente e a caso non è segno di vera umanità nemmeno tra umani. E per contrasto con questo amore basico, senza oggetto, mi torna in mente un caso di amicizia uomo-piccione, da uno a uno. Viveva il più del giorno fuori casa, con i suoi simili, ma andava a dormire ogni notte sulla lavatrice di un mio amico. L’amicizia è durata più di dieci anni ed è terminata nello strazio, come avviene tra due che si sono scelti. “Individuum est ineffabile”, dice la sentenza medievale. Non credo di contrastarne la verità, né voglio, se mi sento di aggiungere che “Solum individuum est effabile”.

In basso a destra. Un’altra immagine soccorre la riflessione della prima di queste note, “Quasi nero”. Un gruppo di donne in burka nero, colte di spalle, ferme. In basso a destra – sono una quarantina quelle che si vedono o si scorgono – una delle donne ha in braccio un bambino o una bambina, dal cappellino rosa e dal giubbino bianco. E chiaro è il viso e la manina che poggia sulla spalla della madre. Si tratta del funerale di “due membri della Guardia Rivoluzionaria iraniana morti in un attacco alla Siria”, scrive ‘La Vanguardia’ nella didascalia, che intitola: “Goccia di luce”.

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