Berlinale

Berlino, una rassegna in cerca d'autore

Giovanni Grazzini diceva che se da un festival riesci a portarti a casa cinque film è un buon festival. Ne abbiamo trovati di più: grazie Carlo Chatrian!

Mati Diop e Carlo Chatrian
(Keystone)
25 febbraio 2024
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Un grande Festival va agli archivi. Non bisogna dimenticare mai il peso reale di questa Berlinale e quanto conta sul mercato cinematografico mondiale, con un mercato, l'European Film Market, anche quest’anno in crescita come volume d’affari e come presenze: oltre 12mila visitatori professionali provenienti da 143 Paesi, 660 nuovi progetti cinematografici presentati in una settimana. Come ha ben spiegato Martin Scorsese ricevendo qui l’Orso d’Oro alla Carriera, mai come in questo momento il cinema vive nelle più diverse piattaforme, anche su TikTok. Di questo bisogna prendere atto. Sono molti gli autori giovani che circolano intorno al Forum, la sezione indipendente e più viva del Festival, dove l’estremo cinematografico è di casa: dal documentario di tre ore sullo Zoo di Berlino a uno di tre ore, ‘Henry Fonda for President’, che racconta la Storia degli Stati Uniti attraverso quella della famiglia dell’indimenticabile attore, che inizia con l’immigrazione danese del 1600; a un film come ‘Săptămâna Mare’, coprodotto dalla Svizzera, che racconta la nascita del terribile XX secolo. Film sporchi che non cercano di piacere ma di dire. E non è forse questo il senso vero del cinema o è solo quello di prendere i soldi? Ed è su questa distinzione che le scuole di cinema hanno un peso: insegnare a guadagnare o insegnare a dire, non c’è una via di mezzo quando si impara, ed è sempre stato così. Ecco allora che il lavoro sul cinema fatto in questi anni da Carlo Chatrian è stato quello di evitare, finché ha potuto, di fare un festival per riempire i tappeti rossi, indirizzando verso una cinematografia che parla al pubblico, che non si prostituisce per farsi comprare dal pubblico: lo stacco da Hollywood, Bollywood e simili è evidente e pesante per il suo destino di direttore.

Quando i media pubblici e privati cercano i nomi, i prodotti e non il cinema, non avere nomi e prodotti è un peso insopportabile, e le defezioni della stampa sono state quest’anno evidenti. Eppure abbiamo visto molti film interessanti e importanti, non capolavori magari, ma come spiegava un maestro della critica qual era Giovanni Grazzini: se da un Festival riesci a portarti a casa cinque film, è un buon festival. In concorso ne abbiamo applauditi diversi e ci siamo accorti che ne abbiamo trovati ben più di cinque, dunque un grande Festival. Con noi porteremo sicuramente ‘Sterben’ (Dying) di Matthias Glasner, un film di una profondità umana incredibile, un ritratto della nostra epoca indispensabile, uno spettacolo totale che tiene inchiodati per tre ore di emozioni; ‘Vogter’ (Sons) di Gustav Möller, un film di una durezza psicologica che annienta, portandoti a uscire dalla tua morale per accettare di essere sconfitto, incredibilmente potente con un’attrice, Sidse Babett Knudsen, da segnare sul taccuino; ‘Yeohaengjaui pilyo’(A Traveler’s Needs) del solito grande Hong Sang-soo, un film sornione e delicato con una Isabelle Huppert che insegna ancora una volta a recitare.

E ancora ‘Keyke mahboobe man’ (My Favourite Cake) della coppia iraniana composta da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, un film delicato e rispettoso sull’amore da anziani, indispensabile in un mondo che malamente invecchia; ‘Shambhala’ di Min Bahadur Bham, un film magico su una madre e i figli terroristi e un’impossibile nuora messa incinta dalla violenza dei maschi dell’Isis, opera che segna e incanta; ‘Black Tea’ di Abderrahmane Sissako che racconta la diaspora africana in Asia attraverso quella umana e singolare di un uomo che s'inquieta per quello che è. Abbiamo apprezzato la freschezza di un film leggero come ‘Langue Étrangère’ di Claire Burger, una storia d’amore adolescenziale delicata e profonda; quella di un documentario come ‘Architecton’ di Victor Kossakovsky sulla cementificazione del Pianeta e ‘L’Empire’ di Bruno Dumont, il film più folle e divertente del festival, una fantascienza fuori da ogni schema. E se questo era il Concorso, fuori resteranno indimenticabili: ‘Shikun’ di Amos Gitai con una immensa Irène Jacob, a dire di Israele oggi attraverso Ionesco, senza pietà, e ‘Averroès & Rosa Parks’ di Nicolas Philibert, un film-documentario sul mondo dei matti oggi, persone abbandonate dalle istituzioni che sopravvivono grazie al volontariato e alla propria folle voglia di esistere. Questo è il Cinema di un bel Festival! Grazie Carlo!

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