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I novant’anni di Sandro Bianconi

La formazione di studioso, le monografie sulla Svizzera italiana, le inchieste e molto altro. L’intervista

Buon compleanno
(Ti-Press)

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

Intervista di Massimo Danzi

Compie 90 anni Sandro Bianconi, uno degli intellettuali più vigili delle nostre lande e autore di quel Lingua matrigna (Il Mulino) che nel 1980 rappresentò la prima fase di una inedita storia della lingua della Svizzera italiana, poi completata da I due linguaggi del 1989 e da L’italiano lingua popolare del 2013 (entrambi Edizioni Casagrande). E l’occasione è fausta oltre che per fargli gli auguri anche per porgli alcune domande sulla sua lunga attività di ricerca, trascorsa dagli studi sui dialetti a quelli sul linguaggio e le sue «variazioni».

Sandro Bianconi vogliamo cominciare dalla sua formazione di studioso, a Friborgo? Quale il rapporto con maestri come Arrigo Castellani, autore di edizioni e studi su antichi testi fiorentini o, più tardi, con linguisti come Gaetano Berruto e Tullio de Mauro?

La mia formazione universitaria friburghese ebbe una doppia dimensione: la prima collegata alla licenza in lingua e letteratura tedesca, con una tesi su W. Heinse e il romanzo Ardinghello und die glückseligen Inseln, che nel 1958 volevo tradurre, ma l’idea naufragò perché l’opera era già stata tradotta e pubblicata a Bari. La seconda dimensione è quella della filologia romanza, con la tesi di dottorato su I dialetti di Orvieto e Viterbo nel medioevo, pubblicata nel 1962 nella rivista Studi linguistici italiani, fondata e diretta dal mio maestro Arrigo Castellani. In quella tesi c’erano le basi del mio lavoro scientifico successivo: il piacere delle ricerche sul campo, la solida base grammaticale di storico della lingua, la consapevolezza dell’importanza degli archivi, e che anche i testi pratici fossero pubblicati in modo rigoroso, la scoperta della varietà di italiano comune. Tutto questo lo dovevo al mio Maestro. Quello che allora mi limitai a intuire, e che poi avrei scoperto e valorizzato, fu la presenza e il ruolo centrale anche nelle nostre regioni degli scriventi “senza lettere”, cioè senza alcuna relazione con la lingua alta dei letterati, degli ecclesiastici e degli accademici. In altre parole, la novità e centralità del concetto di variazione sociolinguistica che potei mettere in relazione con le ricerche di due amici, Virgilio Gilardoni e Raffaello Ceschi. Seguì poi la lettura delle opere di sociolinguisti americani quali Fishman e Labov e italiani, primo fra tutti l’amico Gaetano Berruto professore a Zurigo.

La sua tesi fu centrata sui dialetti di Orvieto, nel tardo Medioevo. Cosa le importava di quel mondo? E sentiva il collegamento con la grande dialettologia e linguistica svizzera, da Carlo Salvioni in poi?

Le radici di quella scelta stanno nel mio concetto di lavoro intellettuale: da svolgere in modo possibilmente piacevole, ma soprattutto da situare in un contesto storico “utile” per il presente, di dimensioni chiaramente sociali, politiche e culturali. Alla proposta di Giovanni Pozzi di studiare l’opera di un umanista del ’400, il Caviceo, preferii quella più ricca di prospettive e stimoli di “emigrare” in Umbria, a Orvieto, e studiare i materiali dell’Opera del suo stupendo Duomo. Questa fu la molla all’origine della mia scelta, molto meno, forse, l’ammirazione per la dialettologia svizzera del ’900.

Mi pare che da queste esperienze esca un interesse per l’italiano ‘comune’, allora poco usuale e non per parlanti determinati e colti, come era d’uso. Cosa ha alimentato questo interesse per parlanti ‘senza lettere’ che, nella storiografia fino ad allora, erano spesso anche persone ‘senza storia’?

C’è un percorso coerente nella mia ricerca a partire dalla metà degli anni 70 del secolo scorso: l’indagine linguistica nella contemporaneità (Lingua matrigna) mi portò a voler capire meglio certi aspetti, risalendo nel tempo. La tesi corrente dei manuali era (ed è) che in Italia prima dell’Unità, solo i letterati e gli accademici assieme ai toscani, scrivevano e parlavano l’italiano definito da Pietro Bembo nel 1525. Tutti gli altri parlavano solo dialetto e non scrivevano. Il primo spunto che mi fece dubitare di questa tesi fu il ricco corpus di lettere dei migranti ticinesi in California e in Australia, pubblicate da Giorgio Cheda, che mi convinse della vitalità dell’italiano delle classi popolari ben prima della scuola pubblica di metà ’800. Ovvia la domanda successiva: dove, quando, come e perché quella “gente senza storia” era stata alfabetizzata? Negli archivi pubblici e privati del Cantone trovai le prove che l’alfabetizzazione e la scolarizzazione erano fenomeni diffusi a partire dalla seconda metà del ’500 con Carlo Borromeo che promosse l’italiano scritto e parlato nella diocesi milanese per fini pastorali. Ma scoprii anche che l’istruzione era richiesta dagli stessi abitanti dei luoghi di forte emigrazione qualificata verso l’Italia e l’Europa, per semplici esigenze comunicative al fine di poter vivere e lavorare fuori dell’ambito locale: era la necessità di capire e farsi capire. Nacque una rete di scuole parrocchiali che fece entrare le persone comuni nella storia. Nello stesso tempo prese avvio la mia attività di editore di documenti storici, dall’epistolario del prevosto Basso alle lettere settecentesche delle donne Oldelli, a quelle dei domestici verzaschesi a Roma. Nel 2014, finalmente, ebbi la soddisfazione di vedere accettate le mie tesi nel saggio di Enrico Testa L’italiano nascosto.

Lei ha dato importanti monografie sulla lingua della Svizzera italiana e la sua storia, che le hanno valso d’essere socio corrispondente all’Accademia della Crusca. Mi sembra che in quegli studi si uniscano due tradizioni: quella, diciamo per brevità, dell’Archivio Storico ticinese di Virgilio Gilardoni e quella di una linguistica d’ascendenza castellaniana. Con in più un tema ben suo come l’interesse sociologico per la “variazione linguistica”, che ritroveremo sia in Lingua matrigna che alla base della creazione dell’Osservatorio linguistico cantonale dieci anni dopo.

Mi limiterei all’ultima parte della domanda. Per 30 anni, dal 1975, parte della mia attività è stata legata alla competenza dell’amico Elio Venturelli che mi ha introdotto come sociolinguista nel mondo della statistica. All’inizio quella relativa ai comportamenti linguistici degli allievi nel rapporto italiano dialetto. Poi il discorso si è allargato alla realtà svizzera con i censimenti federali della popolazione del 1990 e 2000, per i quali le nostre iniziative hanno portato all’introduzione dei dialetti e delle lingue dell’immigrazione nelle domande del questionario. Non solo, ma abbiamo dato il nostro contribuito alle discussioni a livello nazionale sul nuovo articolo costituzionale delle lingue. Tutto il nostro lavoro doveva, secondo noi, offrire ai politici la base conoscitiva per impostare in modo documentato e serio il dibattito al livello cantonale e federale. Ci toccò constatare che, in realtà, ai politici tutto questo non interessava: nei loro interventi i deputati ticinesi a Berna si limitarono a rimasticare i luoghi comuni di sempre sul tedesco che minaccia l’italiano; i politici federali, di fronte ai dati unici e chiari che smentivano la retorica ufficiale dei territori linguistici, eliminarono i censimenti sostituendoli con sondaggi campione dal valore limitato e discutibile. Ma c’è anche una dimensione privata in questa faccenda: il 28 aprile 1993, ricevetti uno scritto del deputato ticinese a Berna, F. Maspoli, con il seguente paragrafo conclusivo: “Avvierò un’inchiesta per sapere chi la paga per ciò che sta facendo contro il Canton Ticino e l’italiano.” Nel frattempo avevo proposto al Decs l’istituzione dell’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, un progetto per monitorare i cambiamenti della realtà linguistica regionale, che piacque a un funzionario serio, Dino Jauch, e fu realizzato nel 1994.

Veniamo alle inchieste sul territorio. Fra le varie sue, quella relativa alla Bregaglia ha costituito un singolare momento di empatia tra ricercatore e popolazione interrogata. Mentre, sul fronte dei risultati, importante è l’aver dimostrato le vie per le quali procedeva l’alfabetizzazione di una popolazione che, di nuovo, si credeva avesse solo un dialetto autoctono.

La ricerca in Bregaglia è stata una bella esperienza, ricca di sorprese per me che non conoscevo nulla di quella realtà. In poche parole, dovevo verificare se l’italiano fosse minacciato dal tedesco. Con la collaborazione dell’amico bregagliotto Gian Walther, intervistai in italiano una cinquantina di persone. Tra me e loro nacque un rapporto di empatia e apertura nell’analisi della situazione attuale. Non solo, anche in Bregaglia il presente mi spinse ad approfondire la conoscenza del passato. E raggiunsi alcuni risultati inaspettati: cioè che la Bregaglia da sempre era una valle plurilingue, con il dialetto locale, lo svizzero tedesco e l’italiano lingua della Chiesa riformata, parlata dalle decine di riformatori italiani esuli in Bregaglia, e diventata lingua scritta ufficiale della Comunità. Constatai che nella Lombardia svizzera e in Bregaglia il processo di alfabetizzazione era stato identico, le due Chiese “rivali” avevano seguito un identico percorso. La ricerca ebbe anche due conseguenze concrete: il coinvolgimento dell’Accademia della Crusca nel 2012 e 2013 con conferenze e lezioni nelle scuole di valle. E inoltre, un auspicio nato dalla ricerca sul campo, divenne nel 2013 la creazione della scuola bilingue a Maloja.

Una cultura di ‘confine’ come quella svizzero-italiana l’ha portata quasi inevitabilmente alla traduzione. Dopo quella scientifica, anche quella di scrittori che vivono in Svizzera come l’iracheno Usama al Shahamani o la slava Meral Kureyshi. Cos’è la traduzione in un realtà che si dice globale ma dove prevalgono spesso visioni autocentriche e nazionali?

Le traduzioni dal tedesco di questi ultimi tre anni sono nate per motivi extra-linguistici, come tentativo, riuscito, di proteggermi dalla pandemia. Dovevo trovare il modo di occupare il tempo in un periodo di isolamento e solitudine evitando così il rischio della depressione. Senza alcun contatto con un editore, ho deciso di tradurre per me i romanzi di un “ultimo” di questi nostri tempi bui, Usama Al Shahmani, un profugo fuggito dalla dittatura di Saddam Hussein, riparato in Svizzera dove ha imparato il tedesco. La paura della depressione mi ha aperto gli occhi su una realtà umana e politica tragica, lavorando alla traduzione in italiano di tre bei romanzi attualissimi. Felice di chiudere con un lavoro coerente con quanto ho cercato di fare in questa lunga esistenza.

Brevi note biografiche

Figlio del poeta Giovanni, Sandro Bianconi nasce a Minusio il 26 maggio del 1933. La sua formazione, dopo le scuole dell’obbligo e la Scuola Magistrale a Locarno, si compie all’università di Friborgo. Si laurea in lettere, sotto la guida di Arrigo Castellani, con una tesi sui dialetti di Orvieto, inizio di una brillante carriera di linguista che lo vede attivo fino a oggi.

Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Lingua matrigna del 1980, I due linguaggi. Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ’400 ai nostri giorni del 1989, Plurilinguismo in Bregaglia del 1998, Lingue di frontiera. Una storia linguistica della Svizzera italiana dal Medioevo al 2000 del 2001 o L’italiano lingua popolare. La comunicazione scritta e parlata dei “senza lettere” nella Svizzera italiana dal Cinquecento al Novecento del 2013. Sensibile alla cultura delle classi subalterne quanto a quella delle classi più ‘alfabetizzate’, Bianconi ha dato testimonianze sui domestici verzaschesi a Roma nel ’700 nel 1992, ha edito le lettere di Giovanni Basso prevosto di Biasca (1552-1626) nel 2005. Del 2015 è l’impressionante diario di Florin Clemente Lozza, cameriere bregagliotto emigrato in Francia e Spagna alla fine del’800.

Nel 1968 si sperimenta come codirettore del Festival del Film di Locarno (con Freddy Buache), nel 1991 è all’origine dell’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana. Completa la sua carriera di linguista con insegnamenti in varie università svizzere e italiane. Dal 2013, è accademico corrispondente dell’Accademia della Crusca di Firenze.

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