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Non solo polacchi. La storia degli internati militari in Ticino

Zeno Ramelli è autore di un’ampia ricerca che fa luce su vicende in parte dimenticate: quelle dei soldati rifugiati durante la Seconda guerra mondiale

Due soldati indiani dell’esercito coloniale britannico a Losone, dove furono internati da giugno a fine settembre 1944
(‘Campi di lavoro e lavoro nei campi’ di Z. Ramelli)
3 marzo 2023
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C’è la Storia. Poi ci sono le storie che la compongono, non tutte note o chiarite anche a distanza di anni. Una di queste ci porta nel Ticino degli anni Quaranta, quando era possibile incontrare polacchi, russi, francesi; ma pure indiani e africani. Erano i soldati che avevano chiesto rifugio e protezione alla Svizzera, isola di pace in mezzo all’Europa. È su questo aspetto meno conosciuto del conflitto mondiale, che Zeno Ramelli rivolge l’attenzione in ‘Campi di lavoro e lavoro nei campi. L’internamento militare in Ticino durante la Seconda guerra mondiale’ (Armando Dadò Editore), versione aggiornata della tesi di master con cui si è laureato in lettere all’Università di Friborgo.

Delle circa trecentomila persone straniere accolte nella Confederazione durante la guerra, 104mila erano considerate come militari e rimasero in Svizzera per periodi diversi. Il loro internamento fu gestito da una sezione dell’esercito creata il 20 giugno 1940, il Commissariato federale per l’internamento (Cfio), che inizialmente operò nel segno dell’improvvisazione per impreparazione e per carenza di uomini e mezzi a disposizione. La ricerca prende in esame il cosiddetto Settore Ticino, dove da agosto 1940 a fine 1945 erano internati, in numerosi campi sul territorio e per una durata di tempo variabile, in media un migliaio di soldati stranieri. «Non è una storia degli internati – ci dice Zeno Ramelli, nato a Berna e cresciuto a Lavertezzo Piano – bensì un’analisi dell’internamento in quanto tale nel contesto regionale ticinese».

La corposa opera colma una lacuna. Nel contesto ticinese gli studi sui profughi civili sono stati più numerosi rispetto a quelli sui militari. In particolare le ricerche storiche sulla Seconda guerra mondiale si sono a lungo focalizzate sul biennio 1943-1945, privilegiando l’accoglienza fornita ai molti rifugiati dall’Italia. Inoltre dell’internamento militare – scrive Maurizio Binaghi nella prefazione – è stata data "rappresentazione positiva, mettendone in risalto i meriti: da un lato le opere pubbliche compiute dagli internati, dall’altro lo sforzo delle autorità nell’organizzarne l’accoglienza. Ramelli prende in esame il tema da diversi punti di vista, ponendo uno sguardo globale sul fenomeno dell’internamento militare in Ticino mostrandone i lati positivi, ma non tacendone gli aspetti più oscuri e problematici". E lo fa con un’analisi su più livelli: il punto di vista delle autorità militari e civili coinvolte; il punto di vista di internati e popolazione; la rappresentazione dell’internamento fin dal dopoguerra e la sua memoria.

Come è sorto l’interesse per l’argomento?

In un primo tempo avevo pensato di trattare la memoria storica del Secondo conflitto mondiale in Ticino, ma non ho trovato sufficienti fonti. È stato Christian Luchessa, che per primo si era interessato alla presenza in Ticino degli internati militari dal 1940 e alla quale ha dedicato alcuni articoli, a suggerirmi l’argomento.

A quali fonti ha potuto far capo?

La maggior parte dei documenti disponibili sull’argomento è stata prodotta dalle autorità militari responsabili. Sul piano svizzero la documentazione del Cfio all’Archivio federale è completa, mentre la documentazione dell’amministrazione del Settore Ticino presenta diverse lacune e non è sempre ben organizzata. Per controbilanciare la preponderanza delle fonti militari, importante è stata la consultazione dell’archivio del Comitato internazionale della Croce Rossa, in particolare la documentazione relativa al Servizio dell’internamento, organo di collegamento con le autorità federali e l’Agenzia centrale dei prigionieri di guerra. Sul piano cantonale e locale le fonti sono meno numerose di quanto pensassi. Ho fatto capo all’Archivio di Stato del Canton Ticino (nel quale però non si trova traccia della Sezione Cantonale degli Internati, creata il 4 marzo 1941 e attiva fino a luglio 1942) e all’archivio Consorzio Correzione Fiume Ticino, nel quale sono conservati convenzioni e contratti dei primi anni di internamento.

Cosa è emerso dalle sue ricerche?

L’internamento militare in Ticino si contraddistinse dall’inizio per il bisogno di combinare due necessità: isolare, recludere e sorvegliare gli internati in quanto soldati stranieri e la volontà di impiegarli in qualità di mano d’opera. Due aspetti che spesso entravano in contrasto; con l’elemento economico del lavoro che divenne vieppiù predominante, rispetto alla sicurezza. Tanto che l’internamento, per ammissione dei responsabili stessi, si trasformò in una sorta di azienda che in Svizzera dava occupazione fino a trentamila persone.

Che Ticino era, quello in cui furono impiegati i militari stranieri?

Un cantone molto povero: il grande sviluppo arriverà dopo la fine della guerra. Una delle specificità ticinesi è che il lavoro degli internati fu subito messo al primo posto. Già quando non era ancora interamente regolamentato né reso obbligatorio (lo fu da febbraio 1941), l’internamento in Ticino di poco meno di mille soldati stranieri rappresentò uno dei primi casi in cui le autorità militari, in collaborazione con quelle civili, cercarono di pianificare l’occupazione attraverso la costituzione di campi di lavoro. La disponibilità di lavoro fu uno dei requisiti per il trasferimento in Ticino degli internati militari, i quali, in un contesto di forte carenza di mano d’opera e dei primi obblighi di estensione delle colture, furono richiesti per realizzare progetti di migliorie fondiarie, altrimenti irrealizzabili poiché troppo onerosi. Si pensi che nel 1940 delle 88’268 giornate lavorative sotto la conduzione dell’Associazione svizzera per la colonizzazione interna e l’agricoltura industriale conteggiate in Svizzera, ben 59’919 si svolsero in Ticino. Un altro aspetto è che gli internati venivano tenuti sempre in zone periferiche; ciò ha reso complicato capirne le condizioni materiali, che erano spesso assai precarie, riflesso delle ristrettezze in cui viveva la popolazione locale.

Come furono accolti gli internati militari dai ticinesi?

Difficile generalizzare: gli internati erano di nazionalità e con vissuti diversi e molto cambiava da località a località. Dalle lettere inviate dai ticinesi alla sezione ‘Esercito e focolare’, fino al 1943 la presenza di stranieri non appare argomento di preoccupazione; dopo, non fanno una chiara distinzione tra civili e militari, la fanno piuttosto tra ricchi e poveri, ebrei e non, fascisti e non. Tra gli aspetti più sentiti c’era quello di evitare contatti con le donne ticinesi. A questo, oltre che a impedire l’evasione, miravano le autorità militari nel separare i locali dai soldati, i quali riscontravano un certo successo nella popolazione femminile. Però l’arrivo in villaggi periferici e rurali di numeri a volte importanti di soldati rispetto agli abitanti, rese inevitabili contatti e frequentazione quotidiani tra la gente del posto e gli internati. E ad esempio molti ticinesi videro per la prima volta uomini venuti dal continente africano e da quello asiatico.

La conferenza

Di ‘Campi di lavoro e lavoro nei campi’ si parlerà oggi venerdì 3 marzo al centro scolastico Canavée di Mendrisio (ore 20.30) con l’autore del libro Zeno Ramelli in dialogo con lo storico Maurizio Binaghi. Organizza: Circolo di cultura Mendrisio e dintorni.

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