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Ashleigh Barty senza filtri: la depressione, Wimbledon, lo stop

Da predestinata al ritiro a 25 anni, quando era la più forte. In ‘My Dream Time’ l'ex tennista australiana si racconta in un'intensa autobiografia

Il 29 gennaio 2022 Ashleigh Barty vince l’Australian Open. Nessuno lo sa ancora, ma sarà la sua ultima partita.
(Keystone)
18 aprile 2023
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Può vincere tutto, aveva affermato più di un commentatore sportivo. Può vincere tutto, si erano detti giornalisti opinionisti analisti e altri ‘-isti’ del tennis. Può vincere tutto, aveva pensato qualche giocatore della domenica o semplice appassionato, ammirando variazioni e panoplia di colpi che la distinguevano dalle colleghe ‘bum bum’. Ci sbagliavamo tutti. Ashleigh Barty non avrebbe più vinto nulla, perché lo aveva scelto lei. Ha 25 anni, è la numero uno al mondo e ha appena trionfato, sapendo già di smettere.

È il 29 gennaio 2022. Nell’urlo che la solitamente composta e riservata Ashleigh Barty libera nella Rod Laver Arena, non c’è solamente l’emozione per il terzo Slam e per essere la prima australiana a vincere l’Australian Open dopo 44 anni. In quel grido che pare arrivare da chissà dove, nei pugni stretti, nelle braccia tese lungo il corpo c’è gioia e pure parecchio sollievo. È finita. Nessuno lo sa, al di fuori della sua ristretta cerchia, ma la numero uno al mondo ha disputato l’ultima partita di una carriera ‘breve’ e già straordinaria.

In ‘My Dream Time. A Memoir of Tennis and Teamwork’ (Harper Collins, 2022) Barty racconta con lucidità e onestà come sia arrivata al ritiro, quando è ai vertici del tennis femminile e pare essere destinata a rimanerci. Scelta che coglie di sorpresa tutto l’ambiente e che, si scopre nell’autobiografia, risale a vari mesi prima. Non in seguito a un’amara sconfitta, bensì alla più bella delle vittorie nel più iconico dei campi: il Centre Court di Wimbledon. Sollevare il trofeo nel luogo simbolo di “eleganza e purezza”, era sempre stato IL suo sogno. “Ne vinci uno e sei a posto, mi dicevo”. Un sogno grande e irrealistico. “Come quando da bambina ti dici che da grande vorrai fare l’astronauta o diventare Primo Ministro. Sai che è poco plausibile, ma in verità pensi sia impossibile”. Sente di essere fatta per quel circolo un po’ anacronistico e per questo affascinante, come “se fossi cresciuta giocando nell’epoca sbagliata”. Ancora oggi – scrive – non capisce cosa sia accaduto in quel giorno di gloria “e probabilmente non lo capirò mai”. Una cosa le è chiara. Si è chiuso un cerchio. E si è chiuso nel luogo in cui tre anni prima sarebbe potuto finire tutto.

Il punto più basso

Il libro – che vuole essere, ed è, un omaggio alle persone che l’hanno accompagnata nel suo percorso sportivo e al contempo di crescita personale – si apre sull’erba londinese. Non è però il 10 luglio 2021. È il 7 luglio 2018, terzo turno contro Daria Kasatkina: sul 4-1 in suo favore “qualcosa cambia” e la partita gira. Ashleigh finisce per perdere, ma per quanto la sconfitta bruci è l’atteggiamento avuto in campo (se la prende in modo veemente con il suo angolo) a farla sentire mortificata. “Ho 22 anni, sono un’atleta professionista, ma in questo momento decido di fare una scenata in pubblico”. Dopo l’incontro “non riesco a guardarmi nello specchio” e solo alcuni giorni dopo chiama l’allenatore “per scusarmi e spiegarmi”. “Puoi battere queste ragazze – le dice Craig Tyzzer –, ma nella tua testa accade qualcosa e io non so cosa. Abbiamo bisogno di aiuto”.

È un episodio di cui probabilmente pochi hanno memoria, eppure “credo sia stato il momento più importante della mia carriera” e nella narrazione di Barty torna più volte. “Perché nulla sarebbe successo senza quella partita”. Con quel crollo, in cui “ho toccato il fondo” perché aveva nutrito il lupo cattivo.

Tanto talentuosa fin da piccolina, Ashleigh rivela di sentire da sempre due voci quando gioca a tennis. “Una sussurra ‘Ash, non sei brava abbastanza’ e l’altra replica ‘Sì, lo sei; forza Ash!’. Entrambe possono avere un impatto notevole tra un punto importante e l’altro, quindi quale ascolto? Dipende da tanti fattori, dipende da quale delle due mi chiama più forte”. Da quale lupo (prendendo a esempio un racconto Cherokee) si decide di nutrire: quello cattivo simbolo di rabbia, arroganza, ego, autocommiserazione o quello buono simbolo di gioia, fiducia, amore, umiltà e speranza.

La nostalgia di casa

Quasi dodici mesi dopo s’impone sulla terra rossa del Roland Garros ed è la numero 1 della classifica Wta. Poi a Wimbledon non raggiunge i quarti e tanto basta per far tornarle i dubbi. Ha sì vinto uno Slam, dicono di lei, ma senza battere giocatrici della top-20. E un po’, scrive, inizia a credere di non meritare di stare lassù. Lotterà soprattutto con e contro sé stessa. Fin da giovanissima combattuta tra l’immenso amore per il tennis (“a dieci anni giocavo ogni giorno, ma era un’ossessione che veniva da me”) e un equilibrio personale messo a dura prova anche dai viaggi viepiù lunghi e vissuti sempre con fatica, a causa della fortissima nostalgia. “Sono una persona casalinga”.

Capitolo dopo capitolo, in cui alterna racconti degli anni giovanili a quelli da giocatrice professionista, si scopre una donna alla quale l’enorme dedizione per il tennis non ha affatto limitato gli orizzonti. Ashleigh, legatissima alla famiglia, è un’appassionata lettrice (durante le due settimane di Wimbledon 2021 ha letto sette libri), ama il golf (“cerchiamo sempre un campo nei pressi di dove alloggiamo durante i tornei”), è assai metodica per sua ammissione (“la prima cosa che faccio quando rientro a casa è disfare la valigia e mettere ogni cosa al suo posto; fare ordine è una sorta di terapia dopo tutto il tumulto”) e curiosa in generale, ciò che – dice – l’ha aiutata a diventare “la versione migliore di me”. È inoltre molto orgogliosa delle sue origini aborigene, scoperte dal papà che, da ragazzo, era risalito agli antenati appartenenti alla popolazione Ngarigo. Un legame ancestrale forte, che racconta con delicatezza ed emozione, fuori di retorica.

Le racchette in garage

Nelle 350 pagine di ‘My Dream Time’, Ashleigh Barty descrive con onestà e senza giri di parole alcuni rovesci di una medaglia, quella dello sportivo di altissimo livello, di cui dall’esterno si tende a vedere il solo luccichio. I periodi di depressione, la pressione derivante dalle aspettative di pubblico ed ‘esperti’, le insicurezze, la vita senza radici. Il tennis, più di altre discipline, si gioca quasi dodici mesi l’anno e in ogni parte del mondo. Può accadere che tutto diventi troppo “e allora, a volte, cadevo a pezzi”. Come a diciott’anni, quando decide di fermarsi. ‘Tennista professionista non fa per me – si dice –. Voglio tagliare questo legame, voglio qualcosa di diverso’. Stacca completamente ed entra in una squadra di cricket prima di tornare in campo, quasi senza accorgersene. “Però stavolta voglio fare a modo mio”.

E a modo suo diventa ancor più forte e vincente. Fino a esaudire IL suo sogno. Ma cosa c’è dopo i sogni? “Capisco ora che lo sport è come scalare una montagna. Puntiamo a una cima e, passo dopo passo, arranchiamo verso la vetta (...). Cosa facciamo quando la raggiungiamo, quando finalmente si vince il nostro Slam o la nostra Coppa del mondo o il nostro Wimbledon? Ci sediamo, ci godiamo il panorama e respiriamo? No, si torna al campo base e si ricomincia il viaggio per cercare di raggiungere ancora una vetta”. Lei non è così e lo avverte subito. Il successo a Londra la lascia senza ispirazione, “non ho più la scintilla” e il denaro che potrebbe guadagnare, non è un motivo per continuare, “non ho mai giocato per soldi”. Per Ashleigh va bene così, “lascerò il tennis e sono serena”.

Ripone le racchette in garage, una per ogni modello usato in carriera; non prima di avere tagliato le corde e tolto i nastri dal manico. “Torno alla mia vita”.

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