Naufraghi.ch

Enzo Jannacci, non un genio ma ‘il’ genio

Un ricordo conclusivo del grande autore milanese a dieci anni dalla scomparsa

Jannacci (terzo da sinistra) sul finire degli anni settanta, assieme ad altri artisti che animarono il Derby Club e formarono il Gruppo Repellente: Ernst Thole, Diego Abatantuono, Mauro Di Francesco, Giorgio Porcaro, Massimo Boldi e Giorgio Faletti.
(Wikipedia)

Quando si parla o scrive di Enzo Jannacci, quando si pensa alla sua opera, un termine risulta essere praticamente obbligato e obbligatorio: “genio”. Veda il lettore se “un” oppure “il” genio.

Poliedrico, frequentatore di linguaggi diversissimi (la canzone, certo, ma anche il cabaret, il teatro, la poesia, la televisione, la narrativa, il cinema…) ed esploratore di generi persino opposti: il dramma come solo i comici, la denuncia sociale, la microstoria regionale, il surrealismo creativo, la tragedia e il noir…

Genio: come definire altrimenti uno che ha studiato al conservatorio ma anche medicina all’università, presentandosi dopo il liceo scientifico (una bestemmia, ai tempi)? Uno che è cardio-chirurgo ma anche protagonista della cultura alternativa milanese degli Anni Sessanta? Forse un’idea ce la può dare la rete di amicizie che lui ha sempre saputo tener vive, nomi che soli dicono già tutto: Dario Fo, Umberto Eco, Beppe Viola, Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Paolo Conte, Sergio Endrigo, Fabrizio De André, Vasco Rossi… In poche parole: Jannacci è Jannacci. Unico e inarrivabile.

La sua storia, e non meraviglia, non è esente da ironia (“Volete sapere come si chiamano i miei genitori? non è una battuta ma… Giuseppe e Maria”). Figlio di un emigrato meridionale (“Vegnii-giò chì a Milan, chì a Milan / Mi gh’avevi dù ann forse trii ann apena // Ohé son chì / ma quand sont arrivaa chi (mi, el teron) / Tegnii-su ‘me on fagott dal papà / Contrapes ‘na valis de carton”) non si fa problemi nel diventare bandiera del dialetto lombardo, sua lingua materna. Attratto fin da piccolissimo dalla musica (gli regalano una fisarmonica quando ha 4 o 5 anni) non se ne distacca più, ovviamente abbracciando poi tanti altri strumenti. Nel suo momento jazz eccolo al pianoforte, quando scopre il rock una chitarra, sul palco teatrale altri strumentini, in concerto poi con una voce pronta a trasformarsi in strumento (da stridula a malinconica, da profonda a ieratica). Ogni etichetta è per lui riduttiva. Lui è oltre.

Non sempre ha avuto successo, anche perché lui l’ha ricercato sì e no. In fondo gli bastava essere conosciuto senza insistere troppo sull’identità, agendo quasi di nascosto, alla faccia dell’ego oggi dominante. Per Jannacci l’importante è il contenuto, l’idea, non chi l’ha partorita. Basti pensare a due punti fermi della canzone d’autore italiana (‘Bartali’ interpretata da Paolo Conte e ‘Via del Campo’ da Fabrizio De André): chi mai riconduce questi brani a Jannacci? Pochi. Lui semmai richiama al sacrosanto insulto all’ipocrisia di ‘Vengo anch’io no tu no’ (che nel suo piccolo è stata una vera bomba nel panorama della canzone, e culturale, italiana) o alla successiva ‘Ho visto un re’ (subito censurata dalla Rai…).

Un idealista, ecco. E soprattutto uno vero. Che ha sempre detto e cantato quello che più gli andava, seguendo l’estro.

Capace di far ridere e nel contempo rattristare, facendo magari riferimento a Brecht ed alla sua Tebe dalle sette porte (“Povero re / ah, beh, sì, beh / ma povero anche il cavallo / ah, beh, sì beh”), oppure con ‘L’ombrello di mio fratello’ a dare quel tocco un più al film ‘La vita agra’, 1964, di Carlo Lizzani (dal romanzo di Luciano Bianciardi, 1962). Struggenti storie d’amore (‘Giovanni, telegrafista’) e quadri di crudo realismo (‘Vincenzina e la fabbrica’). Surreale (con la già citata ‘Vengo anch’io, no tu no’) e nello stesso tempo cantore della ligera (la malavita) milanese. Le sue non sono canzoni ma storie cantate, magari nate da una creatività improvvisa e sicuramente levigate da una sensibilità umana irrinunciabile nei confronti degli esclusi, degli infelici. ‘Ci vuole orecchio’ cantava mettendoci tanto, ma tanto cuore: su di un palco, davanti a una telecamera, alle prese con un pianoforte. Altro che barlafuus…, vedasi ‘La filosofia di Enzo Jannacci: storie di un barlafuus’, ed. Mimesis, 2019.

Oggi sono 10 anni che Jannacci ha salutato tutti. A chi scrive piace ricordarlo con due titoli: quello di un libro che già disse tutto nel 1974 (‘L’incomputer’ scritto con Beppe Viola, voluto da Umberto Eco con presentazione di Stefano Bartezzaghi, edito da Bompiani) e quello della sua canzone-specchio-confessione: ‘Lettera da lontano’, 2001, dedicata a Silvia Baraldini (“non servirà a niente/ma almeno saprà che le siamo vicini”) a suo figlio (“che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio”) alla moglie (“che non ha avuto un marito, ha avuto solo le doglie”) e ad altri.

E una definizione di Beppe Viola: “Lui è Rivera, io sono uno che corre. Con una squadra fatta da me arrivi quinto o settimo, con lui vinci il campionato”.

---

Per gentile concessione di naufraghi.ch

Già pubblicati:

Enzo Jannacci e il suonatore di contrabbasso

In collaborazione con laRegione, dalla rubrica ‘L'Armando’ (2006-2008 per l'allora RegioneTicino):

In effetti era vero

Morire di camion

Giuseppe Panebarco accusa polmonite

Leggi anche:
Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE