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Giuseppe Panebarco accusa polmonite

A dieci anni dalla morte, di Enzo Jannacci pubblichiamo estratti da ‘L’Armando’, rubrica che l'artista curò per l'allora RegioneTicino

Nel 1964
27 marzo 2023
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Su quella che ancora si chiamava RegioneTicino, tra il 2006 e il 2008, Enzo Jannacci fu protagonista di una rubrica intitolata ‘L'Armando’, titolo tratto dalla canzone del 1964, tra le più rappresentative del cantautore, cabarettista, attore, sceneggiatore e medico italiano. In suo ricordo, a dieci anni dalla scomparsa avvenuta il 29 marzo, pubblichiamo alcuni di quei testi. Lo facciamo insieme a naufraghi.ch, che sul proprio sito cura un personale tributo al geniale artista.

Il primo estratto, intitolato ‘Giuseppe Panebarco accusa polmonite’, uscì sulla RegioneTicino il 6 settembre 2008, per essere ripubblicato una prima volta il 3 aprile del 2013.

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Giuseppe Panebarco, tutto sommato, disteso a letto, quella mattina di domenica stava bene. Al caldo. Certo stava meglio della notte prima con tutti quei brividi che gli salivano su per la schiena. Caldo, aveva caldo, anche fin troppo per cui si scopriva e si copriva come aveva visto fare a Luigi l’Africano (per via che era stato prigioniero in Libia) quando gli veni­vano gli attacchi di malaria.

Giuseppe Panebarco si era preso, anche su consiglio del farmacista, le sue brave due pillo­le di chinino e si era detto: così domani sto bene. Infatti stava meglio della sera preceden­te, se non fosse stato per il caldo, per quel conti­nuo sudare e per il fatto che lui, Giuseppe Pa­nebarco, professione muratore, uomo di novanta chili, vedere girare tutta la stanza come nel calcinculo gli era venuto anche da ridere del fatto che tutto il mondo girasse intorno a lui, proprio come nel calcinculo, che avevano fatto un gran rìdere quella volta con Luigi l’Africano e Carletto Nembrini ch’era proprio una macchietta, tanto che lui poi aveva dovuto vomitare, però capita. Non te la prendere.

Solo che adesso i fatti erano due. Ridere gli veniva sem­pre da ridere, ma era da solo anche se sentiva fuori suo­nare le campane che finché è una questione di dieci minuti fa anche piacere, fa sentire odore di paese. Dopo diventa rompimento di coglioni, specialmente con quel gran cal­do, perché lui adesso aveva più caldo di prima e non ave­va più voglia dì rìdere così da solo.

Fuori in paese, invece, era festa, e i giorni di festa nei paesi sono tutti eguali specialmente quando si è soli, che devi rendere conto in paese delle scarpe nuove, che non hai delle bottiglie, che ti dispiace perdere alle carte o alle bocce, delle ragazze che non ti vogliono perché vogliono uno con la moto giapponese, non con la Guzzi dell’82. Che tu sia muratore o no fa lo stesso, il fatto è della moto giapponese che non puoi mica andare a rubarla.

Così è meglio andare a lavorare anche il giorno di festa, solo che il Padreterno ha detto di no di modo che uno di novanta chili con quei problemi lì che avrebbe potuto la­vorare sette giorni alla settimana e invece non poteva. Gliel’aveva detto anche al sindacalista che era venuto: e giù tutti a ridere come avesse detto chissà che scemata.

Ma lui, Panebarco Giuseppe di novanta chili, gli piace­va lavorare e la cosa non gli era andata giù, considerati poi gli altri problemi, di non inferiore importanza.

E adesso era lì con quel caldo e non era neanche estate e Giuseppe Panebarco capì di essere solo con le campane che andavano avanti in un bel giorno di festa che erano tutti a casa e così non seppero che il muratore viveva solo di un bicchiere di acqua e vino, praticamente un piòcc, un pidocchio, aveva una polmonite fulminante e che sul turbinìo del calcinculo, del caldo equatoriale, delle cam­pane festanti, delle ragazze con la minigonna sulle Kawasakì dei ganzi venuti su da Bergamo al paese.

Ridendo e tutto sommato divertendosi come succede alla gente alla buona, stava crepando. Infatti verso le 17.30, cinque e un quarto ora locale, Giuseppe Panebar­co, manovale di muratore, che con una cazzuola in mano se gli giravano i coglioni faceva scappare un paese intero, aveva finito di divertirsi.

È lì come se dormisse, disse piano un suo compagno di lavoro; è morto di festa il giorno dell’Assunzione lontano dalle braccia del signore fecero eco le mogli e le figlie più grandi. Alle 18.30 l’Africano, il sindacalista e il prete: è come se dormisse, ridissero tutti in coro, come se volessero togliersi un gran peso dalla coscienza. Ma porca miseria proprio di influenza neanche di silicosi, fece sommesso il sindacalista. E proprio il giorno dell’Assunzione ti va a crepare un muratore, fece il prete ancora più sommesso.

La sera in televisione c’era Toto Cutugno che contro il parere dei medici cantava a Domenica in. Col playback.


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