Da 21 anni tra Modena, Carpi e Sassuolo si fa esercizio di ‘pedagogia civile’. Riflessioni dall’edizione 2022, tenutasi lo scorso fine settimana
Si immaginò il Mondo Ideale, o lo Stato, non potendo pensare allora, i primi del Seicento, alla città giusta, il suo lato realizzabile. La via che conduce allo Stato ideale può essere la città giusta. Oggi possiamo pensarvi e costruirla più liberamente, giorno per giorno. Per questo il sindaco è figura più decisiva del primo ministro. E i sindaci sono tanti. Immaginando un mondo ideale, l’utopista immaginava non solo l’irrealizzabile ma l’inimmaginabile.
Da ventuno anni tra Modena, Carpi e Sassuolo con il Festivalfilosofia si fa esercizio di "pedagogia civile", scrivono gli organizzatori. Si pensa il mondo secondo varie categorie. Che finora sono state ventuno: da Felicità a Ereditare, da Fantasia a Comunità, Natura, Gloria, da Persona a Verità. Fino alla Libertà dell’edizione 2021. Il tema quest’anno era Giustizia. E la bellezza delle tre città in quei giorni ha generato la riflessione di apertura su stato ideale e città giusta (la giustizia non era tra le preoccupazioni degli antichi grandi utopisti. Il primo cruccio era l’ordine, come nelle dittature. Il secondo il lavoro, come nelle dittature).
Com’è fatta la città giusta? Com’è fatta fuori – strade, case, piazze – e dentro: le menti e i cuori degli abitanti? Nei giorni del Festival Modena, Carpi e Sassuolo sono più civili e ancora più belle. Se la giustizia è in relazione con civiltà e bellezza...
Ora per impressionare si potrebbe passare ai numeri. Degli incontri – tra lezioni magistrali, lezioni sui classici, mostre, laboratori, spettacoli – o delle presenze negli anni più recenti: oltre 200mila l’ultimo anno prima della pandemia. Più rappresentativi dei numeri, i nomi: per restare all’edizione di quest’anno, Cacciari (direttore scientifico) e Bianchi, Galimberti, Carofiglio, Rigotti, Marzano, Di Cesare, Natoli, Curi. Più rappresentative dei nomi, l’attenzione e la curiosità delle persone raccolte nelle piazze. Il piacere di ritrovarsi una comunità. E il tema dell’edizione 2023 sarà ‘Parola’.
Chissà se si conoscono personalmente Francesca Rigotti e Anna Donise.
Al Festivalfilosofia le generazioni di filosofi si mescolano. Natoli e Sini, Galimberti e gli altri veterani – fino a poco fa ancora Bauman, Hillman, Bodei, creatore del Festival – arrivano disinvolti, sicuri e iniziano senza un’esitazione. I giovani cominciano esitanti, con incrinature nella voce, tremori e fin quando questo dura danno il meglio di sé. Vedi che partono da visioni del mondo lontane e vedi una continuità e forse anche uno scambio non unilaterale. Francesca Rigotti è la studiosa che conosciamo, insegnante all’Università della Svizzera italiana e autrice, per il pubblico più vasto, della Filosofia delle piccole cose il cui successo ha portato alla Nuova filosofia delle piccole cose. Al Festival ha parlato di ‘clemenza’. Anna Donise insegna all’Università di Napoli e ha messo a lungo al centro dei suoi interessi il concetto di ‘empatia’. Entrambe scelgono un sottotitolo per la propria lezione: ‘Empatia. Tra crudeltà e umanità’; ‘Clemenza, Il potere che si china’. Donise tiene la sua relazione calma, seduta. Rigotti un po’ meno calma, in piedi. Si rovescia l’atteggiamento indicato sopra, ma se l’osservazione nascondeva un giudizio, inclinava dalla parte dell’emotività dei giovani. La vivace emotività della Rigotti scalda la sua lezione e scuote l’attenzione del pubblico (suscitandone l’empatia). Anna Donise anatomizza l’‘empatia’, la rovescia, ne indica il lato nascosto con un procedere da chirurgo. Dice che la parola nasce nel tedesco e in campo estetico: indicava la partecipazione emotiva provocata dall’opera d’arte. Spiega che essere empatici non è di per sé un fatto etico. Si può percepire lo stato d’animo dell’altro, ma per la vera comprensione occorre un nuovo passaggio, e ancora uno per un nostro concreto intervento. Alcuni, poi, usano tale capacità di sentire per fini meschini o crudeli. Una conclusione è che l’empatia ha valore conoscitivo prima che etico, diventa etico quando, nelle nostre scelte, alla ragione si aggiunge l’emozione che essa ha liberato.
Rigotti affronta la ‘clemenza’ senza bisturi ma con una specie di assalto e accerchiando l’idea. Dice che viene sempre dall’alto, accompagnata da un chinarsi più o meno simbolico, ma anche chi ne è oggetto, il supplice, si china. Non è atteggiamento privato, solitamente, ma pubblico. Ne illustra segni e simboli nelle opere d’arte in cui la giustizia, insieme agli attributi noti della spada e della bilancia, mostra scoperto un ginocchio, perché è piegando il ginocchio che ci si china. Di qui i singolari ritratti di potenti (Napoleone su tutti) che, seduti e sovraccarichi di abiti cerimoniali, mostrano un ginocchio nudo. Il clemente insomma non è giusto né pietoso. Simula giustizia o pietà, per ulteriore dimostrazione del proprio potere.
Ma quanto ai non potenti, che sono i più?
"Se vuoi vivere giusto e pietoso, smetti di vivere", scrive Pavese. Facciamo il male per il solo fatto di stare al mondo? La ragione del più delle nostre azioni ci passa inavvertita. Parte di quelle che subiamo non le vediamo più, per fortuna. E anche la più provata empatia ha sonni e buchi. Non so se sia ancora vero che "tutto è politica". Certo è vero che ogni cosa è giusta oppure ingiusta (se non è giusta, è ingiusta). Avvertire le piccole o grandi ingiustizie richiede una vigilanza estrema, incessante, impossibile. Una prova in più della nostra debolezza nei suoi confronti.
"La gioia del più debole: dare qualcosa al più forte". Lo scrive Elias Canetti nella sua prima raccolta di quaderni di appunti, ‘La provincia dell’uomo’. Nello stesso libro, torna spesso sul tema della giustizia, dell’ingiustizia, del potere e dell’impotenza ("Finché nel mondo ci sono ancora uomini che non hanno alcun potere, posso non disperare del tutto"). E qui di nuovo, sul tema della vendetta, grottescamente: "Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho capovolto il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. – Guerra".
Quel che rende terribile il botta e risposta immaginato da Canetti non è la singolarità di ogni reazione ma la cieca, meccanica reciprocità. Come le alterne martellate del fabbro. Monografie sono state scritte sulla tortura, saggi, corsi universitari, conferenze. Come se non bastasse il pensiero o un’immagine. Un’immagine ferma: sfogliare un giornalino di metro: verso la metà, a tutta pagina, vedere un uomo pendere da una gru. Le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri sono lucide e chiare, analitiche e giustamente piene di nomi, fatti, esempi. Quelle di Camus sulla pena di morte sono altrettanto chiare e meno distanti, più compromesse. Ma qualcosa ancora ostacola la lettura. Come se il pensiero non potesse fare che pochi passi, o non dovesse. Come se certi temi, doverli analizzare è già aver perso.
Canetti aveva un’ossessione tra le altre: la morte. L’ingiustizia e l’oltraggio che per lui rappresenta la morte. Da alcuni anni Adelphi ha raccolto le sue note su quel tema. Una scelta editoriale intelligente, doverosa, ingannevole. Ne deriva l’idea che l’autore, per un certo numero di mesi o alcuni anni, abbia ragionato sull’argomento e quel volume sia il risultato. Pensò invece alla morte ogni giorno della sua vita. Non alla propria ma a quella degli altri, di tutti. Morti passate e presenti, tutte le future.
Dedicò quattro decenni a costruire il saggio ‘Massa e potere’. Ancora giustizia e l’ingiustizia, inganno, debolezza, forza. Per riposarsi dalla preparazione interminabile del libro, per non soffocare, cominciò a tenere quei quaderni di note, come valvola di sfogo. Ricordi e fantasie brevi e rigorose, speranze e disperazioni, appunti sui miti... E pensieri che da quel suo lavoro più imponente, tirannico, si infilano nei quaderni: "Non voglio incutere alcun timore, non c’è nulla al mondo di cui mi vergogni di più. Meglio essere disprezzato che temuto". Più avanti: "Parole senza le quali non si può vivere, come amore, giustizia, e bontà. Ci lasciamo ingannare da esse, e ci accorgiamo dell’inganno, ma per credervi poi ancora più intensamente". Tre parole come fossero sinonime: amore, giustizia, bontà. Per dire che cos’è la bontà si può descrivere, come si può, l’amore. Per dire che cosa sia giustizia ragionare sulla bontà. Senza teorie e senza gerghi. Canetti ha le idee molto chiare su cosa intende per bontà. Lo dice in terza persona: "Egli intende una vigilanza che non si lascia illudere e non illude. Egli intende un’acuta diffidenza verso ogni uso dell’uomo per scopi che sembrano ‘più alti’, ma sono soltanto quelli di altri. Egli intende apertura e spontaneità, una instancabile curiosità per la gente, che la include e la comprende. Egli intende riconoscenza per quelli che non hanno fatto assolutamente nulla per noi, ma ci vengono incontro, ci vedono e hanno parole per noi. Egli intende ricordo che non trascura nulla e non omette nulla. Egli intende speranza nonostante la disperazione, speranza che però non tace mai la disperazione (...) Egli intende l’impotenza e mai il potere (...) Egli non intende la bontà che riesce in qualcosa, ma quella che improvvisamente rimane con le mani vuote (...) Intende la preoccupazione per gli uomini qui, non il suffragio per le loro anime".
Tante citazioni si indeboliscono a vicenda, è vero. Ma in un libro di note non sono raccolte diversamente. Si dovranno fare un po’ più lunghe le pause. O leggerne una e chiudere il libro. Ne aggiungo un’altra soltanto. Suggerisce che anche la giustizia è poco. Una meta insufficiente o un obiettivo minimo. Invece: "Si deve saper dare anche senza senso, altrimenti si disimpara a dare".
M.S./laRegione
Modena