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La vita in fuga di Ulas Samchuk, la morte per fame dell’Ucraina

Un contributo di Carlo Ossola sul romanzo del 1934 ‘Maria. Cronaca di una vita’, la cui traduzione italiana sarà presentata giovedì 19 maggio al Lac

18 maggio 2022
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Il romanzo ‘Maria. Cronaca di una vita’ di Ulas Samchuk è la cronaca di uno dei più atroci crimini che abbiano colpito l’umanità nel XX secolo: l’Holodomor, la «morte per fame», provocata dalla carestia causata in Ucraina dalla dissennata politica del regime sovietico di Stalin. Ulas Samchuk (Derman, 1905-Toronto, 1987), è stato uno dei più rilevanti scrittori ucraini del XX secolo; appartiene alla tradizione letteraria della diaspora, avendo trascorso la maggior parte della sua vita lontano dal proprio Paese. Fervido nazionalista e cultore dell’identità ucraina, in quella lingua ha scritto, votandosi all’oblio. La sua biografia è una «vita in fuga», com’egli testimonia nell’autobiografia ‘Le dodici e cinque. Appunti di corsa’: «Ho visto gli zar, i re, gli imperatori, i presidenti, i dittatori, Mussolini, Hitler, Stalin, la fame del 1932-33, i campi di concentramento... e l’eterno esilio».

Gli studiosi di Ulas Samchuk lo definiscono, non di rado, «un Omero ucraino», un cantore epico della sua terra e del suo popolo: se nella definizione di «Omero ucraino» c’è enfasi, certo al lettore italiano Samchuk apparirà uno scrittore che prolunga la scia verghiana dei «vinti», fedele a essi sin nelle coloriture del linguaggio e nel ritmo asciutto e saccadé del narrare. Maria è la biografia di una donna di villaggio che si spegne nella morte per fame: Holodomor è il neologismo entrato nella lingua ucraina per definire questa tragedia. Il termine deriva dal nesso di parole ‘moryty holodom’ che significa «infliggere la morte attraverso la fame». Samchuk terminò il suo romanzo a Praga nel 1933, proprio nell’anno in cui in Ucraina la carestia aveva raggiunto il suo apice. Quest’epica corale ha il proprio «basso continuo» nella vita del villaggio; l’autore così lo conferma: «Appartengo a quelle persone che non si saziano mai della vita del villaggio. Appartengo a quelli che ovunque siano – a Berlino, a Parigi, a Roma – si ricordano in un modo o nell’altro del proprio villaggio... Il villaggio, dove il cuore riposa». Il romanzo è anche una grande enciclopedia del folklore contadino, dipinta a tratti vivi: le grandi feste collettive, osservate nella liturgia e nei piatti tradizionali della cucina ucraina, ebraica, russa, polacca, nei nomignoli con cui si evoca o si interdice l’altro: russi, ebrei, cosacchi; il lavoro quotidiano nei suoi arnesi più semplici, la maestosa natura, signora dell’universo.

Il testo segnala che Maria visse quasi settantadue anni e scomparve nel 1933; l’arco della narrazione parte dunque dagli anni Sessanta del XIX secolo, dal 1861: era l’anno delle speranze contadine, legate all’abolizione della servitù della gleba, proclamata da Alessandro II; un inizio il cui tono idilliaco non s’intende se non sullo sfondo di quell’anelito di lavoro e libertà. La parte centrale disegna invece l’irrompere degli effetti della Rivoluzione d’Ottobre (1917) nella vita quotidiana, sullo sfondo tragico della Prima guerra mondiale: «Fu l’indimenticabile 1914. Suonarono le trombe, nitrirono i cavalli, le mamme e le spose scoppiarono a piangere». Alle privazioni della guerra s’aggiunse la Rivoluzione: lo zar Nicola II abdicò. La notizia della caduta della monarchia non arrivò subito nelle campagne ucraine. Samchuk ci dà un’illustrazione di quel momento: «Marzo. Le campane in chiesa non smettevano di suonare. [...] Gli uomini indossarono le divise (chi non aveva una divisa in quel periodo?!) e si precipitarono in chiesa. [...] All’improvviso nella chiesa apparve un unterzer ferito. [...] Si arrampicò sul recinto della chiesa e gridò: "Tovarishi!". La gente sussultò. Non avevano mai sentito quella parola. Nessuno l’aveva mai pronunciata fino ad allora. "Lo zar, l’imperatore di tutte le Russie, non ha rinunciato al trono! L’hanno detronizzato! [...] Tutta quella terra, per la quale i nostri fratelli versano il sangue, perdono le teste su tutti i fronti e tornano a casa mutilati, – quella terra deve appartenere a noi! Mi sentite! A noi, ai contadini che la lavorano!"».

Il motto: «dare TUTTO alla Rivoluzione» venne applicato alla lettera e nelle campagne scoppiarono rivolte; al X Congresso del Partito Comunista, Lenin alla politica di inquadramento militare sostituì (primavera 1921) la Nep, la Nuova Politica Economica, che viene percepita da Samchuk come un’ulteriore restrizione e gravame per chi coltiva la terra. (Sono gli avvenimenti raccontati da Michail Bulgakov in ‘La guardia bianca’, sulla rivista «Rossija» nel 1924-1925; trad. it.: Einaudi, Torino 1967). La situazione si radicalizza con la presa di potere di Josef Stalin nel 1922, e con il varo, nel 1928, del primo «piano quinquennale» che pose fine alla Nep. Esso si basava sull’industrializzazione accelerata e sulla collettivizzazione agricola. In ‘Maria’ Ulas Samchuk associa, in pochi tratti essenziali, l’inizio del piano quinquennale con la fine dell’unità simbolica del villaggio intorno alla campana del monastero. Scrive: «I giardini iniziarono a fiorire, gli usignoli cominciarono a cantare, ma la campana era sparita. Era il piano quinquennale sovietico. Avevano bisogno del metallo. L’industrializzazione».

Il piano quinquennale, infatti, che si sviluppò dal 1928 al 1932, aveva per obiettivo la collettivizzazione agricola che doveva centralizzare i beni del Paese e trasferire la ricchezza dall’agricoltura all’industria. Fu bandita la proprietà privata e le terre furono unificate in cooperative agricole – kolchoz. Di fronte alla resistenza dei contadini ucraini, i kulaki, iniziò la repressione e la deportazione di massa. E infine le requisizioni sistematiche del grano, le perquisizioni, l’impossibilità di migrare: divennero cibo anche le formiche, gli scarafaggi e i vermi. Poi toccò alle ortiche, all’acacia, ai soffioni, alla corteccia delle piante. Le piante contenevano pochissime proteine e la gente si ammalava di idropisia, si gonfiava e moriva, come descrive con sgomento Grossman.

Pochi stranieri ebbero la possibilità di essere testimoni diretti dell’Holodomor: tra questi i giornalisti inglesi Gareth Jones e Malcom Mugerridge, che si recarono in Ucraina per documentare la carestia del 1933. Va aggiunta la preziosa – e terribile – rassegna fotografica di Alexander Wienerberger (Vienna, 1891-Salisburgo, 1955): ingegnere chimico, lavorò per diciannove anni nelle aziende chimiche dell’Urss e, durante il suo lavoro a Kharkiv, scattò un centinaio di fotografie dell’Holodomor del 1932-1933. Il console italiano a Kharkiv Sergio Gradenigo fu un testimone oculare di quegli orrori. Grazie allo scrupoloso lavoro di Andrea Graziosi, storico e sovietologo, questi documenti sono stati resi pubblici e costituiscono una fonte fondamentale per la ricostruzione delle pagine tragiche della storia ucraina. Fra le tante lettere spedite in Italia, basti citare quella del 20 giugno 1933, lucida ed esplicita nell’analisi e nella valutazione: «... si parla di una "carestia organizzata" da Mosca per eliminare definitivamente il tipo Ucraino, facendo scomparire colla morte questo grosso ostacolo al dispotismo Grande Russo...».

Il nostro presente vi affonda sinistramente le proprie radici.

La presentazione

Domani, giovedì 19 maggio alle 18, nella Hall del Lac, la traduttrice Mariia Semegen e il critico letterario e accademico Carlo Ossola presenteranno la prima traduzione italiana del romanzo ‘Maria. Cronaca di una vita’ (Edizioni Clichy, Firenze) di Ulas Samchuk.

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