Nel 50esimo anniversario del diritto di voto alle donne in Svizzera, Monte Carasso ospita da oggi ‘50|50|50’, progetto nato dallo sciopero femminista del 2019
“Quando mi hai chiesto se avessi voluto posare come Guglielmo Tell – dice la regista bernese Meret Matter rivolgendosi a Yoshiko Kusano, che la sta fotografando – subito mi sono chiesta se si potesse mai renderlo donna. La risposta è chiara: di sicuro, una donna che spara al suo stesso bambino non sarebbe mai acclamata come un’eroina”. Quanto scritto è la prima didascalia della prima fotografia (vedi in fondo alla pagina) esposta all’interno di ‘50|50|50’, mostra fotografica dedicata al 50esimo anniversario del diritto di voto alle donne in Svizzera in cui espongono 50 fotografe di tutta la Confederazione che (ultimo dei tre ‘50’) sono state chiamate a immortalare 50 cittadine altrettanto confederate. ‘50|50|50’ si apre oggi a SpazioReale, Monte Carasso, per restare visitabile sino al 22 agosto. L’Antico convento delle Agostiniane è una delle tappe dell’esposizione, che durante l’estate in corso toccherà tutte le maggiori città elvetiche. «Ma solo a Monte Carasso – spiega in fase di presentazione Valentina Fontana, promotrice culturale della Città di Bellinzona – la mostra può godere di uno spazio espositivo vero e proprio, per un’occasione che non è soltanto esposizione e fotografia, ma anche riflessioni, frammenti del dialogo di chi le ha fotografate». A partire da quel parallelo uomo-donna con protagonista Tell di cui sopra, e tutto il resto delle sensazioni concesse dalle fotografate alle fotografanti in fase di photo shooting.
È Francesca Palazzi, fotografa professionista losannese specializzata nel ritratto e co-autrice del progetto insieme ad altre quattro omologhe dell’obiettivo, a portarci nei dettagli di ‘50|50|50’, in un videomessaggio dapprima (motivi di salute non le permettono di essere a Monte Carasso) e telefonicamente a laRegione a margine dell’incontro (segue). Palazzi fa parte delle Frauenstreikfotografinnen, un collettivo di fotografe professioniste operanti in Svizzera con all’attivo un libro, ‘Wir – Fotografinnen am Frauen*streik’, il più fedele resoconto dello sciopero femminista del 2019. Fedele perché ritratto in prima persona: «Pensavamo che in quei giorni i giornali avrebbero aperto le proprie pagine al nostro lavoro – spiega Palazzi – e invece le immagini da noi realizzate sono circolate pochissimo, gli articoli si sono accompagnati soltanto a foto realizzate da uomini. Il libro è nato per rendere visibile le qualità delle donne fotogiornaliste, che sono una minoranza». Il passo dal libro alla mostra sarebbe stato automatico, «ma eravamo stanche delle foto già viste e riviste, e la storia ci ha fatto un regalo: i cinquant’anni del diritto di voto alle donne in Svizzera».
Così nasce ‘50|50|50’, cinquanta testimonianze della vita condotta da artiste, musiciste, imprenditrici, ricercatrici, registe, femministe, donne, fotografate da nomi di spicco come Sara Carp (Swiss Press Photo Award 2021), le ticinesi Aline D’Auria, Katja Snozzi (fotografa accreditata a Palazzo federale dal 1990), Sabine Cattaneo (Sony World Photography Award 2017) e molte altre. Denominatore comune del progetto è anche ‘smontare’ il tradizionale posizionamento dell’uomo dietro la macchina fotografica e le donne di fronte: «Teniamo molto alla documentazione della donna vista dalla donna – aggiunge Palazzi –, pensiamo non ci sia per forza una differenza se a scattare sia un uomo oppure una donna, né nell’estetismo e quanto meno negli interessi. Se è una donna a fotografare un’altra donna, anzi, parla anche di sé stessa». Perché «nel caso del ritratto, il posizionamento di fronte a una donna fotografata da un uomo o da un’altra donna è diverso. Donne abituate a farsi ritrarre da uomini mi riferiscono di un diverso vissuto, di un’esperienza diversa. La combinazione di un soggetto donna con fotografo donna può portare a sensibilità e reazioni diverse e noi siamo fiere di poter far mostrare la professionalità delle donne fotografe in Svizzera oggi».
Anna Rosenwasser, giornalista e attivista LGBTIQ, Zurigo, ritratta da Lea Reutimann
È innegabile. Quando si parla di fotogiornalismo, la mente va subito all’impavido reporter che schiva proiettili sul fronte di guerra. «Sì, quello con la giacchetta tecnica e l’obiettivo lungo tre chilometri», commenta con un sorriso Francesca Palazzi, tornando telefonicamente – a laRegione, poco dopo il suo intervento a distanza – sulla scintilla che ha portato al libro e alla mostra.
Fermo restando il problema, l’avere ignorato i vostri scatti in quell’occasione può essere stato qualcosa di diverso da un atto ‘maschilista’?
Certamente, io stessa lo vedo come un atto dettato dalla consuetudine. Ogni giornale ha un’agenzia alla quale è legato e in quell’occasione l’immediatezza potrebbe aver prevalso. Abbiamo diffuso attraverso Fresh Focus, al quale forse meno testate sono abbonate, ma avevamo già fatto un lavoro d’informazione ai singoli giornali per i quali ognuna di noi lavorava. Forse, in redazione, quel giorno hanno fatto come d’abitudine.
Anche mediaticamente, è stata un’occasione persa, fosse anche soltanto il dare spazio al reportage di una protesta femminile ritratta da fotografe donne…
Sì, lo è stata. E aggiungo che Yoshiko Kusano, ora fotografa indipendente, si è ritrovata a ritrarre i preparativi dello sciopero in una sala di 300 donne in fase di organizzazione di fronte agli unici uomini presenti, due fotoreporter e un cameraman. In questo ambito completamente femminile è parsa quasi un’intrusione. Ma alla fine, il discorso importante è che ci siamo trovate, noi come professioniste con tutti i problemi che questa professione porta con sé, uniti a volte anche alla gestione di una famiglia. Fotografare è un mestiere già difficile di suo, che prende molto tempo, e a queste condizioni diventa ancora più complesso.
La mostra e il libro vi risarciscono di tutto il lavoro fatto?
È stata una cosa organica. Una volta viste le fotografie, il materiale, e dopo esserci incontrate a Berna tutte e 32 le protagoniste dell’iniziativa principale, ci siamo dette: “Adesso gli facciamo vedere noi!” (ride, ndr). C’era un po’ di quello spirito di rivalsa, ma soprattutto, e mi riferisco a quando ci siamo incontrate a Berna, qualche giorno dopo lo sciopero femminista, ognuna ha portato con sé la propria foto preferita e si è presa il tempo di raccontare il vissuto della giornata, e della singola immagine. Quell’incontro è stato un momento affascinante: non avevo mai vissuto una riunione dove regnasse un tale rispetto per la parola delle altre. Affascinante anche per il materiale, veramente forte.
Frauenstreikfotografinnen ha pronte iniziative future?
Penso che per adesso ci riposeremo. Il collettivo è in forma di associazione. È già gran cosa poterci essere connesse in tutta la Svizzera. Per il futuro potrebbero esserci iniziative più piccole, organizzate da nuclei più ristretti di persone. Per esempio, esiste una problematica anche nel mondo dello spettacolo in cui le musiciste non sono rappresentate e ad alcune di noi hanno proposto un’azione incentrata sui ritratti di musiciste. Ma si tratta di cose più piccole, perché un libro e una mostra in un due anni ci hanno provate a sufficienza.
Cinquant’anni sono un tempo molto lungo, che riferito al diritto di voto alle donne, il 1971, è terribilmente breve. Come si spiega questo gap svizzero?
È una domanda che ci siamo poste tutte, tutti. Io sono di origini italiane, in famiglia ho vissuto una libertà maggiore rispetto alle donne cresciute in Svizzera. Posso pensare che il fatto che qui non ci sia stata la guerra, ho sentito molto parlare delle donne italiane attive tra le file della Resistenza durante la guerra, mentre qui, invece, la donna a casa è rimasta tale. Anche in Francia e Spagna, in tutti i Paesi limitrofi sono sempre stati un passo avanti a noi. Posso portare il mio esempio: già crescere bambini nella città di Losanna era difficile, ora che abito fuori città lo è ancora di più. Pare cosa quasi inaudita che nel 2021 una donna voglia lavorare.
Malumori che sanno di preistorico…
Più che di malumori si tratta di mancanza d’infrastrutture, e poi di accoglienza del quotidiano. Un esempio banale: la vendita delle torte a scuola, fatte dalle mamme, o i costumini per la sfilata, fatti dalle mamme. Questa tradizione è molto radicata. Il mio, ripeto, è un punto di vista particolare: nella mia famiglia ci sono sempre state donne che hanno lavorato o studiato. Poi, quando ventenne mi sono confrontata con le mie coetanee, mi sono accorta che la libertà che potevo avere io non era la stessa per una giovane svizzera. Soltanto dieci anni fa, a una ragazza che voleva studiare fisica fu caldamente raccomandato di fare, al massimo, psicologia. E più osserviamo queste cose, più lavoriamo su questi progetti, più quello che ascoltiamo ci sconvolge…
Nella tradizione degli eventi collaterali delle mostre di SpazioReale, vedi la più recente World Press Photo Exhibition, il 29 luglio alle 21, nella corte dell’Antico convento (nell’adiacente Casa delle Società in caso di pioggia), si tiene ‘Vogliamo tutto! – Ritratti di donne* nella Svizzera di oggi, un approccio fotografico al femminile’, talk con Aline D’auria, Sabine Cattaneo, Katja Snozzi, Yoshiko Kusano, Caroline Minjolle, Francesca Palazzi e Monica Flückiger, membri del collettivo (il talk sarà accompagnato dalla performance musicale dell’artista e produttrice svizzero-australiana Jessiquoi).
Il 20 agosto alle 21, infine, ‘Gli occhi di Vivian Maier (I am a camera)’, spettacolo dedicato alla fotografa franco-americana che lasciò ai posteri 150mila fotografie, la maggior parte delle quali nemmeno sviluppate, un tesoro oggetto di uno dei più sorprendenti casi di rivalutazione postuma. La storia di una delle prime grandi fotografe di sempre (forse la prima, a sua insaputa) è materiale per Roberto Carlone, già fondatore della Banda Osiris, qui in veste di unico attore-musicista, co-regista con Caterina Cavallari e produttore di questo racconto sul binomio fotografia-vita (orari della mostra e ogni altra informazione su www.spaziooreale.ch).
Meret Matter, regista bernese, ritratta da Yoshiko Kusano