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'I traditori': la verità, vi prego, sulle stragi del '92

Da Palermo ad Ascona, l'opera-inchiesta su mafia e depistaggi giudiziari in scena mercoledì 2 e giovedì 3 giugno: a colloquio con il co-autore, Gery Palazzotto

Falcone e Borsellino sui muri di Palermo, alla borgata marinara della Cala (foto: Salvatore Ciambra - Vater_Fotografo / CC BY 4.0)
1 giugno 2021
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“Sono stato investito da una nube abbastanza calda, all’interno dell’abitacolo sono stato sballottato, e sono uscito dal veicolo, tutto distrutto. Ho visto il corpo di un collega che era accanto alla mia macchina e mi sono messo a girare così, senza nessuna meta, cercando aiuto o dando aiuto agli altri colleghi…”. Così nell’udienza del 22 novembre 1994 al Tribunale di Caltanissetta, l’agente Antonio Vullo descriveva l’eco dei 90 chili di tritolo e nitroammina che il 19 luglio di due anni prima, alle 16.59, squassarono via D’Amelio a Palermo uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Eddie Cosina. Vullo, il sesto, l’unico sopravvissuto alla strage, disse di non aver sentito o visto nulla di sospetto prima dell’esplosione. “Assolutamente nulla”.

‘I traditori’, opera-inchiesta, un insieme di teatro musica e storia d’Italia, parte dal civico 21 di via Mariano D’Amelio, il palazzo di Maria Pia Lepanto, madre del giudice, e Rita Borsellino, sorella di Paolo. Lo scopo: dimostrare come la storia dell’Italia libera non sia solo stata minacciata dalle stragi di mafia ma anche dalle menzogne costruite e tenute vive da chi era preposto alla tutela della democrazia di una nazione. ‘I traditori’ – regia di Alberto Cavallotti, musiche di Marco Betta, Diego Spitaleri, Fabio Lannino, in scena questa sera e domani alle 20.30 al Teatro San Materno (www.teatrosanmaterno.ch) – è il racconto del cittadino comune Gigi Borruso, unico attore in scena, che prova a ricostruire il depistaggio giudiziario seguito agli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino. L’opera in arrivo ad Ascona porta la firma di due scrittori-giornalisti, Gery Palazzotto e Salvo Palazzolo, scritta su invito del Teatro Massimo di Palermo. «Già questa è un’operazione che porta con sé qualcosa di straordinario», spiega a laRegione Palazzotto, vent’anni a capo delle cronache al Giornale di Sicilia, romanziere, collaboratore del Foglio e corsivista su Repubblica Palermo.

«Che il più grande teatro d’opera d’Italia, il terzo d’Europa, una struttura che abitualmente si occupa di musica lirica e classica, si occupi di commissionare un’opera-inchiesta sulle stragi di mafia del ’92 in Italia è già, secondo noi, qualcosa di dirompente, perché significa che siamo arrivati a un punto di non ritorno». E non sarà la soluzione del caso, ma almeno la presa di coscienza «del “più grave depistaggio della storia repubblicana”, così come definito dai giudici del Tribunale di Caltanissetta», che nel luglio del 2018 hanno chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti del gruppo investigativo Falcone-Borsellino guidato dal questore Arnaldo La Barbera, con l’accusa di avere indotto il pentito Vincenzo Scarantino ad accusarsi dell’aver partecipato all’attentato contro Borsellino. Prima di ritrattare; e prima che un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, consegnasse ai giudici più convincenti prove del proprio coinvolgimento nella strage.


Palermo, via D'Amelio, 19 luglio 1992 (Keystone)

«Per quindici anni – spiega Palazzotto – le indagini sono state deviate dalla presenza di Scarantino, falso pentito costruito ad arte dall’allora questore La Barbera, al servizio dei servizi segreti col nome in codice di Rutilius. Per 15 anni, fino a quando cioè non arriva il vero autore del furto dell’auto imbottita di tritolo che si autoaccusa (Spatuzza, ndr), tutti credono a Scarantino, che nemmeno è un affiliato di Cosa Nostra. Quello che noi ci chiediamo nello spettacolo, che è quel che si chiedono tutti, è come sia possibile che nessun magistrato tra quelli che hanno raccolto questi verbali si sia mai accorto di nulla. E ci chiediamo come a tutt’oggi i colpevoli possano essere solo tre poliziotti».

Per la cronaca: Scarantino viene arrestato il 29 settembre del 1992, due mesi dopo l’attentato di via D’Amelio; sei anni dopo ritratta, puntando il dito contro chi lo avrebbe costretto a confessare il falso, ovvero La Barbera, che nel 1992 a Palermo condusse le prime indagini su Capaci e via D’Amelio prima di guidare il Gruppo d’indagine Falcone-Borsellino del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, per diventare più tardi questore del capoluogo siciliano. La Barbera che “ebbe un ruolo fondamentale – si legge nella sentenza del processo Borsellino quater – nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”. Promosso a più riprese, nel 2001, l’anno prima di morire, La Barbera è anche colui che la sera del 21 luglio del 2001, in pieno G8, deciderà di concerto con altre alte cariche istituzionali l’assalto alla scuola Diaz di Genova, teatro del pestaggio “da macelleria messicana” (cit).


Il 'cittadino comune' Gigi Borruso

‘Come si fa a raccontare una storia se hanno rubato le parole?’

Dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, un’agenda dell’Arma dei Carabinieri con la copertina rossa e rigida che il giudice teneva sempre con sé, divenuta più fitta negli appunti dopo l’attentato a Giovanni Falcone, Palazzotto e Palazzolo – quest’ultimo inviato per Repubblica, sceneggiatore per la tv e autore di libri sul tema mafia – già avevano narrato nel precedente spettacolo ‘Le parole rubate’, la storia dei 57 giorni intercorsi tra gli attentati di Capaci e via D’Amelio affidata nel 2017 a Ennio Fantastichini e ad alcuni tristi cimeli – la borsa semicarbonizzata di Borsellino e il computer Compaq appartenuto a Falcone – portati in scena, a Palermo, da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto di Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nel 1983. E sul finale di quel primo episodio, a teatro, scendevano lenzuoli bianchi dai palchi, a chiedere giustizia: «Nelle ‘Parole rubate’ – spiega Palazzotto – avevamo ricostruito l’elenco degli eventi inauditi che riempirono lo spazio tra le due stragi iniziando due ore dopo la prima, e cioè quando un gruppo di magistrati e poliziotti provenienti dalla Sicilia entrarono nell’ufficio romano di Falcone dove stavano computer e diari suoi, e non sequestrarono nulla, lasciando i segreti del giudice in balìa non si sa di chi. Documenti puntualmente scomparsi».

Quasi in contemporanea per dinamica, «trenta secondi prima che esplodesse l’autobomba di via D’Amelio, Paolo Borsellino usciva dalla sua auto blindata con nient’altro in mano se non una sigaretta e un accendino»; non la borsa, dentro la quale c’era la famosa agenda rossa. «Abbiamo mostrato (in ‘Le parole rubate’, ndr) le mani istituzionali e non che entrano dentro quella macchina, tirano fuori la borsa, vi ravanano dentro e la rimettono nell’auto che brucia. Per ben tre volte».

‘Menti raffinatissime’

Tornando a ‘I traditori’, più tecnicamente parlando: «Ha la forma di un racconto, in cui l’attore fa l’attore. Nel senso che non è qualcuno che pretende di avere la scienza in mano, ma uno come te, come noi, che ha assistito a una serie di cose e viene assalito dai dubbi, e giunge alla conclusione che le cose non tornano. Il Dna femminile presente sulla strage di via D’Amelio, i pizzini criptici di Provenzano, la lettera trovata nella cassaforte di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, nella quale un anonimo lo informa delle indagini portate avanti da Falcone e molto altro». Dieci fatti, dieci nomi e cognomi, in nome di quello che ai due autori piace definire «un patto di verità con lo spettatore, perché ogni cosa raccontata sul palcoscenico è provata da ciò che appare sullo schermo alle spalle del narratore. Prove, dati più o meno segreti estratti da ricostruzioni attendibili, quelle degli inquirenti». Cercando di svelare «le trame del sistema con cui mafiosi e servizi segreti deviati hanno minato le fondamenta della democrazia, quelle che Falcone chiamò “menti raffinatissime”, commentando il fallito attentato all’Addaura, dove era presente anche Carla Del Ponte». Non a caso attesa al San Materno per la prima replica di mercoledì 2 giugno.


Carla Del Ponte, ospite mercoledì 2 giugno (Ti-Press)

I siciliani hanno accolto bene le due opere. «Anche perché è innegabile – continua Palazzotto – che nel tempo l’aria sia cambiata. Tuttavia, la cosa che ci stupisce è la permanente assenza di risposte sul fronte istituzionale. È chiaro che l’agenda rossa di Borsellino non è nelle carceri nascosta sotto il letto di qualche mafioso. Ai mafiosi cosa può interessare dell’agenda rossa? Qui, semmai, serve un pentito di Stato». E in senso contrario, nell’aprile di quest’anno è uscito ‘Nient’altro che la verità’, libro di Michele Santoro nato dagli incontri con il killer Maurizio Avola, che sostiene (smentito da Antonio Vullo, ndr) di essere stato l’ultimo ad aver visto in vita Borsellino, e che giura che le stragi del ’92 furono una cosa fatta in casa (la casa della mafia): «Non voglio entrare in polemica, esprimo solo la preoccupazione per l’aver voluto, Santoro e compagni, smontare tutte le tesi che avevano finalmente portato i magistrati alla verità. Mi pare un’azione molto pericolosa: depistaggi ne abbiamo avuti molti, e ora nega il concorso esterno, che pare una strana fretta di salvare i servizi segreti dopo trent’anni. Noi ci siamo preoccupati di verificare l’attendibilità di questo pentito – aggiunge Palazzotto – che è smentito da tutte le procure. Dice di aver partecipato alla strage e ci sono testimonianze del fatto che anziché a Palermo fosse a Catania».

‘Epidemia di distrazione collettiva’

“È finito tutto, è finito tutto…”, dice Antonino Caponnetto al cronista; è il 23 maggio del 1992 e la Fiat Croma di Giovanni Falcone, volata in cielo come un dragster, è appena ripiombata a terra. “Non mi faccia spiegare…”, dice il magistrato, che nel 1984 aveva fondato il pool di magistrati (con dentro Falcone e Borsellino) che si sarebbe calato per anni sulla piaga mafiosa. «Avevo 29 anni – racconta Palazzotto – ero già caposervizio e stavo lì a cercar di capire qualcosa dai resoconti dei miei cronisti sguinzagliati. Sin d’allora siamo stati tutti vittime di quella che io chiamo una “epidemia di distrazione collettiva”». Un contagio dal quale il giornalista non salva nemmeno i giornalisti: «Tutti noi, in fondo, ci siamo bevuti la verità di La Barbera, abbagliati da uno che sapeva che l’auto con dentro l’esplosivo era una Fiat 126 mentre il perito arrivato da Termini Imerese non l’aveva ancora identificata». E di quel “È finito tutto”, Palazzotto ricorda: «Noi palermitani eravamo annichiliti. Ma la cosa che più mi diede l’impressione di ritrovarmi dentro una guerra ormai perduta fu proprio la morte di Borsellino, un cambio di scena a sipario aperto, la cosa più ‘telefonata’ del mondo. Bisognava proteggerlo e invece, quando 57 giorni dopo Capaci esplose il tritolo in via D’Amelio in quello che noi definiamo un boato nel vuoto di potere, avemmo piena contezza che la mafia poteva fare quel che voleva».

L’anniversario della strage di via D’Amelio è vicino: conosceremo mai ‘I traditori’, Palazzotto? «Personalmente, ritengo che verremo a capo di questa ferita solo quando, finalmente, sapremo trovare risposte semplici a domande semplici come in che modo un’indagine su eventi così drammatici sia stata depistata in una maniera così elementare, e come mai nessuno abbia mai pagato. Perché chi ha svolto le prime indagini su via D’Amelio, e che nel migliore dei casi ha preso fischi per fiaschi, è stato addirittura promosso».

Qualcuno scrisse un giorno che la grandezza di una nazione si misura dalla capacità di proteggere i propri eroi: «Già è incredibile che una nazione abbia bisogno di eroi per andare avanti. Falcone e Borsellino, eroi, nemmeno dovevano diventarlo».


Capaci, 23 maggio 1992 (Keystone)

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