Fotografia

Philippe Antonello in 3D, come Vincenzo Vela

Con Stefano Montesi forma la coppia di fotografi cui si devono le immagini tridimensionali delle opere dello scultore, esposte a Locarno e Giornico. L'intervista.

Philippe Antonello ai piedi de ‘L’Italia riconoscente alla Francia’ (1861-1862)
24 agosto 2020
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Un artista (Vincenzo Vela) per una doppia mostra (a Locarno e Giornico) in tre dimensioni. Da vedersi con gli appositi e nostalgici occhialini. Il ‘Vela in 3D’, mostra fotografica delle opere dello scultore apertasi lo scorso 5 agosto a Locarno in Piazza Remo Rossi, è da sabato scorso anche a Giornico, negli spazi del Museo di Leventina. A Locarno vi resterà sino a giovedì 3 settembre; in Leventina, fino al 25 ottobre di quest’anno. Le immagini tridimensionali delle opere di Vela – Spartaco, la contessina Leopoldina d’Adda col cane, le ‘Vittime del lavoro’ e molte altre – giungono dagli obiettivi e dal lavoro congiunto di Philippe Antonello e Stefano Montesi, internazionalmente noti come fotografi di scena e ritrattisti di soggetti anche (spesso) hollywoodiani. È stato Philippe Antonello, da 25 anni con la reflex in pugno, a spiegare domenica scorsa al Palacinema di Locarno il percorso di avvicinamento a una mostra che vede la luce nel bicentenario della nascita dello scultore, concretizzatasi a margine di un periodo di residenza dei due fotografi al Museo di Leventina con l’intento di animare l'immobilità.

'Una ricerca sul linguaggio, non sulla tecnologia'

Nato a Ginevra e residente a Roma, fotografo di scena per Nanni Moretti, Silvio Soldini, Mel Gibson, Wes Anderson e molti altri, Philippe Antonello è la metà di una coppia di professionisti che lavorano insieme da dieci anni. «Come vedete non abbiamo iniziato dalle statue», esordisce. Sfilano, sullo schermo della sala 2 del Palacinema – una volta conclusa la cerimonia ufficiale all’esterno con i direttori Mina (Gianna, Museo Vincenzo Vela) e Pomari (Roberto, Palacinema) – i corpi umani sui quali è nato il lavoro dei due fotografi in campo di tridimensionalità. «La nostra – spiega il fotografo – è una ricerca sul linguaggio, non tanto sulla tecnologia, che esiste dai tempi della Regina Vittoria. Non c’è nulla di nuovo nello strumento, se non che con l’avvento del digitale il lavoro è molto più facile».

È curioso il mondo del 3D, dai ‘View Master’ degli anni ’40-’50 giunti fino agli anni ’80 (realtà aumentata per cinquantenni e oltre), agli occhialini per vedere ‘Lo squalo 3’ che esce dallo schermo (era il 1983), fino ad ‘Avatar’ di James Cameron (2009) e ai televisori in 3D, una tecnologia che negli apparecchi più recenti non è nemmeno più un optional: “Ogni 15-20 anni c’è un risorgimento del 3D, che poi non attacca». Colpa degli occhialini: «Il 3D del futuro ci toglierà quelle maschere sugli occhi, basteranno gli schermi lenticolari, che già esistono ma serve attendere le regole del mercato». Ma è sicuro: «Invaderà le nostre vite. Niente di più di quello che avete visto in un film di fantascienza».


'Spartaco' (attenzione: servono gli occhialini per il 3D...)

«Applicandoci al 3D ci siamo dovuti negare una certa libertà. Noi fotografi cerchiamo lo squilibrio, l’elemento dissonante, e in questo campo non funziona così». A parte ciò, sul 3D Antonello&Montesi partono avvantaggiati: «Il bello di lavorare nel cinema è poter chiedere informazioni ai tecnici». E a proposito di ‘Avatar’, due dritte sono arrivate dal direttore della fotografia di Cameron.  Scorrono le immagini, nella sala 2, scorre «lo zoo umano» – nel bello della sua varietà infinita – ritratto in tre dimensioni, dai danzatori romani ai cosplayer (umani vestiti come i personaggi di film, fumetti, manga e chi ne ha più ne vesta), all’artigiano di angioletti in legno alle cui spalle si estende, a distanza da 3D, il panorama di Matera città della Cultura. Ma anche la comunità italiana delle drag queen ritratta su commissione in ‘Adonis in High Heels’ (Adone in tacchi a spillo, 2011).

E poi si viene a Vincenzo Vela. «Il suo museo assomiglia tanto all’Andersen di Roma, dove vado spesso, un piccolo museo vivo ma senza richiamo, abbandonato come tante cose in Italia». La comprensione di Vela da parte di Philippe nasce da un’opera in particolare, ‘L’Italia riconoscente alla Francia’ (1861-1862), celebrazione in gesso del sostegno francese alle rivendicazioni nazionali italiane. «Sentendo da sempre come un dovere quello di difendere le minoranze, a partire dalla comunità omosessuale e lesbica verso la quale ho grande attenzione, la statua di Vela con due donne che si baciano è stata decisiva». Oltre all’imponenza dello Spartaco e al bassorilievo, naturalmente, il monumento dedicato ai minatori del Gottardo, sul piazzale della Stazione di Airolo che è stata «l’opera più complicata da fotografare» perché senza alcuna tridimensionalità. E in questo caso, ai fotografi è venuta in soccorso l’illuminazione. 


Vela in Piazza Remo Rossi

'Uno svizzero che ha avuto fortuna'

Emulo dell’Antoine dei ‘400 colpi’ di Truffaut, a otto anni Philippe ruba le foto di scena di ‘Incontri ravvicinati del terzo tipo’ di Spielberg dalle vetrine incustodite della sala Rialto a Ginevra (“Che oggi è diventata un parcheggio”), prime avvisaglie che il futuro che il padre ha immaginato per il figlioletto – «Fare scienze economiche, entrare in banca, avere uno stipendio da almeno 10mila franchi al mese» – non sarebbe stato esattamente quello. È quello che succede quando la curiosità diventa passione: «Già guadagnarsi da vivere è un miracolo. Il resto è un susseguirsi di miracoli». Intesi come bellezza di questo lavoro. E l’incontro nella sala 2 è chiuso con un inno all’empatia, «la qualità migliore di un essere umano».

Accento da ginevrino che vive a Roma, o da romano nato a Ginevra, un cappello da pittore più che da fotografo (ma le categorie non sono troppo distanti), Philippe Antonello si considera «un svizzero che ha avuto fortuna». Così dice alla ‘Regione’ nella Piazza Rossa (di Locarno, da ‘Remo’). Fortuna da leggersi come «quella di avere iniziato con una cosa molto grande, ‘La passione di Cristo’ di Mel Gibson. Il fotografo c’era già, un settantenne che tre settimane prima del film si è ammalato. Fare a piedi il set di Matera sarebbe stato troppo faticoso per lui, e in una produzione come quella è sicuro che ti vogliono sul set tutti i giorni. Ci ha rinunciato, facendo il mio nome alla produzione». E tutti i premi vinti per quel lavoro, miglior poster, ‘Gold Book Award’ e tutto il resto? «Non c’entra nulla la qualità fotografica, avevo e avrei fatto in futuro cose migliori di quelle. Quando fai questo lavoro e lavori su un film che fa successo, diventi visibile. Conosco fotografi così pieni di talento che fotografano film che non danno visibilità. Siamo legati alla fama del prodotto che promuoviamo». Questo per quanto riguarda l’immagine applicata al marketing, perché «altro discorso sono le foto sul set».

'Il cinema è cambiato'

Il marketing, appunto. «Il cinema è cambiato. Ha capito che se non hai un corredo di comunicazione, se non hai lo strumento per comunicarlo, è impossibile raggiungere obiettivi molto grandi. E difatti il mio lavoro è aumentato. Da 10 anni a questa parte non ci siamo mai fermati. Forse anche perché facciamo cose diverse, con spirito diverso da altri». Come si lavora su un seti cinematografico, dunque? «Devi fare il tuo lavoro senza dar fastidio, devi stare da parte, devi essere discreto, devi limitarti a raccontare visivamente il set. Ed è la tua motivazione a far lavorare te e non qualcun un altro». Il cinema, per Philippe – detto senza giri di parole – «non ha bisogno di paraculi. Se lo sei, se ne accorgono». E come ci si muove su un set? «La cosa più importante è la discrezione». Che è quella che gli chiede George Clooney: «Ci lavoro perché sono discreto, non perché siamo diventati amici. Ho trascorso quattro mesi sul set senza che ci fossimo ma parlati, e senza che lui si accorgesse della mia presenza».

L’ultima domanda, che doveva essere la prima: cosa mai ci farà un ginevrino a Roma, seconda città al mondo per tempo perso nel traffico dopo Bogotà?: «È nella natura umana la curiosità e così come quando si tratta di ritrarre le drag queen, a me interessa soltanto ciò da cui sono diverso. Lo so che, paragonata a Ginevra, ho scelto la città più caotica al mondo, ed è chiaro che la scelta si deve anche al suo essere un centro cinematografico. Ma Roma ho la fortuna di viverla per il tempo giusto e senza preoccupazioni economiche, dovendo girare il mondo nei luoghi dove in film portano me e Stefano. Comunque, prendermi un caffè in Piazza Navona negli ultimi mesi è stata un’esperienza impagabile…».

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