In un letto d'ospedale per coronavirus dal 26 marzo, il songwriter si è spento a 73 anni. Il ricordo nelle canzoni e nelle parole di chi, oltre a lui, le ha cantate
“Mi prenderò cura di quest’uomo. Io sono di Montgomery”. L’angelo al capezzale del sig. Prine (il nome del paziente è scritto sulla cartella medica ai piedi del letto) è del disegnatore Rick Maynard e risale allo scorso 3 aprile. Appare sulla pagina facebook di Bonnie Raitt che scrive: “Pregate per John, sta ancora combattendo. Grazie e restate al sicuro”.
L’angelo è quello di ‘Angel from Montgomery’, 1971, una delle grandi canzoni scritte da John Prine, morto a 73 anni, età tanto appetibile per il virus che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a chi, nel 1998, era riuscito ad andare oltre un tumore al collo e alla lingua che gli aveva risparmiato la voce, quasi migliorandone il timbro. Così come ‘You’ve got a friend’, scritta da altri (Carole King) è diventata di James Taylor, allo stesso modo ‘Angel from Montgomery’ di Prine, sull’album del debutto dello stesso anno, è stata e ancora è di Bonnie Raitt. Meno identificabile con l’artista, è stata anche di John Denver e Ben Harper, di Dave Mattews e John Mayer, e di molti altri.
'Those years just flown by like a broken down dam'
Nel gennaio di quest’anno, chi meglio della cantante e chitarrista americana poteva dare un senso ancor più compiuto al Grammy alla carriera consegnato a Prine, che mai come negli ultimi tempi godeva di popolarità per i più recenti e acclamati album ‘For better, for worse’ del 2016 e ‘The tree of forgiveness’, 2018. Tre, complessivamente, i ‘grammofoni’ vinti da Prine in cinquant’anni di carriera: oltre al Premio alla carriera, quelli per gli album ‘The missing years’, 1991 (con dentro Bruce Springsteen) e ‘Fair & Square’, 2005.
A partire da quella per il ‘Best new artist’ del 1972, altre nove nomination, sulla scia di un primo lavoro sul quale trova posto la storia di quella donna di mezza età che tanto vorrebbe evadere dalle quattro mura di casa (“Se i sogni fossero il tuono e il lampo il desiderio, questa vecchia casa sarebbe bruciata tanto tempo fa”), da un matrimonio che ormai si fa fatica a chiamare tale (“Come può una persona andare a lavorare di giorno e tornare a casa la sera e non avere nulla da dire”), una donna che a un’esistenza riassumibile nel conclusivo “Credere ancora in questa vita non è proprio una cosa da niente” chiede che un angelo – da Montgomery, provenienza ispirata a Prine dalla stella del country Hank Williams – venga a salvarla da tutto questo.
James Taylor: 'La sua perdita rende questa pandemia personale'
“Ho passato gli ultimi due anni in tour con Bonnie Raitt”, scrive James Taylor sulla sua pagina facebook. “E spesso, a metà del nostro concerto, arrivava la splendida canzone di John Prine”. Riportando la sensazione della collega, “in lutto per la perdita di uno dei più grandi songwriters della nostra generazione”, per Taylor “la sua perdita rende questa pandemia personale, perché per me John era un eroe” pur nell’esserne Prine, dell’eroe, l’antitesi: “Non era evasivo, o misterioso. Era solo imbarazzato. Era uno genuino. Se ne va un grande”.
Tra il folk e il country, mai esattamente definibile e definito, lo hanno cantato in molti. Bette Midler, Johnny Cash (dal quale, fu ispirato, e per il quale scriverà), Carly Simon, Joan Baez. “È il nuovo Dylan” dissero di lui – e Dylan, di lui, disse: ‘Prine è puro esistenzialismo proustiano’ – come si dice di tutti quelli che in America, chitarra in mano, riescono a ritrarre fedelmente l’animo umano anche nelle sue dimensioni più intime, aggiungendo a volte, è il suo caso, la giusta dose d’ironia di chi ha capito come stanno le cose, e senza dimenticare gli ultimi, le vittime di guerra (‘Sam Stone’, reduce del Vietnam dipendente dalla morfina, raccontato senza mai nominare il Vietnam) e tutti gli abbandonati dal sogno americano. E Springsteen, su facebook, ricorda l’appellativo condiviso: “Eravamo i New Dylans”, scrive il Boss, parlando della “persona più adorabile del mondo” e piangendo la perdita di un “tesoro nazionale”.
Michael Moore, un’altro come lui indefinibile e senza troppa peluria sulla lingua, in queste ore posta la canzone che nel 1971 aprì le porte della popolarità al cantautore, ‘Hello in there’, dal vivo nello storico show televisivo ‘Live from Sessions at West 54’: “Ha scritto tante belle canzoni – commenta il regista – eccone una sulla solitudine dell’invecchiare, e un appello rivolto a noi, quello di non ignorare i nostri anziani”.
Ma ‘Hello in there’, sull’album d’esordio, non era esattamente nata per essere un brano sulla terza età. “Avevo ascoltato ‘Across The Universe’ – raccontò Prine – e Lennon aveva tanto riverbero nella sua voce. Stavo pensando di urlare in un tronco vuoto, cercando di entrare in contatto con qualcuno”. Aggiungendo: “Non credo di avere fatto un solo concerto senza cantare quella canzone”, senza rimpiangerne una sola, ennesima esecuzione.